Misteri di polizia/XXIV. La Censura

La Censura

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XXIII. La Letteratura clandestina XXV. Uno scritto di Carlo Botta. - Uno scrittore di epigrammi

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CAPITOLO XXIV.

La Censura.

Non pigliava la via della censura che il pensiero inoffensivo, l’idea plasmata sul modello fornito dai governi stabiliti. Ciò che non poteva essere stampato e pubblicato all’ombra della Polizia, pigliava la via dei paesi retti a libertà. Laonde mentre i censori si distillavano il cervello a castrare gli scritti che si portavano al loro esame, a scrutare minutamente i concetti degli autori ed a pesare frasi e parole, i libri e gli scritti cosiddetti sovversivi, infischiandosi degli editti della Polizia, entravano clandestinamente in paese, importando quel veleno che i Governi credevano di tener lontano mercè le forbici e lo spegnitoio della censura. Si può dire, anzi, che le misure della Polizia non impedirono mai, come in altro luogo diremo, che un libro, per quanto si proclamasse pernicioso, entrasse e circolasse liberamente nei paesi, il cui pensiero s’imbavagliava mercè la censura.

Questa, peraltro, in Toscana, non esercitò il suo potere addormentatore che in modo assai prudente. A Firenze, per una lunga serie d’anni, essa fu esercitata da uno scolopio, il padre Mauro Bernardini, uomo di coltura estesa, d’idee qualche volta vaste, e di manica piuttosto larga, specie nelle materie economiche e politiche. Il suo Archivio — ora posseduto dall’Archivio di Stato di Firenze — è la dimostrazione di quanto scriviamo sul vecchio scolopio, mentre è un termometro dei criteri politici, letterari e religiosi che informarono per circa trent’anni la censura nella capitale dell’ex-Granducato. Codesti criteri, difatti, non s’inspiravano sempre a sfrenata libidine di evirazione intellettuale a paure ridicole, come spesso succedeva sotto la [p. 192 modifica]censura pontificia, napoletana o modenese. Già, a certe materie, in Toscana, non era stato dato lo sfratto; ed entro certi limiti vi si poteva parlare e scrivere di casse di risparmio, di strade ferrate, di libertà economica, di miglioramenti, di redenzione di condannati liberati dal carcere, di insegnamento primario e d’asili infantili. La stessa parola progresso non era posta all’indice; s’intende progresso colla cappa di piombo e i calzari di feltro, per paura che non corresse di troppo non svegliasse i custodi di questo sepolcro di viventi ch’era allora l’Italia, sopratutto il principe di Metternich a cui i congressi di Vienna, di Lubiana e di Verona avevano dato l’incarico di cloroformizzare gli spiriti. Era, insomma, una censura decente, che la divisa dello inquisitore fanatico e medievale nascondeva sotto quella dello scolopio intelligente e sino ad un certo punto ammodernato, coll’aggiunta d’un zinzino di bonomia cui più d’una volta doveva essere corretta dalla stessa Polizia, o peggio, come accadde per l’Antologia, dalla stessa Cancelleria Aulica, la quale, si capisce, afferrava con voluttà quelle congiunture per dare una patente d’ingenuità al padre Mauro, alla Presidenza del Buon Governo, e, magari, a don Neri Corsini e al conte Fossombroni.

Mentre in altro luogo dedichiamo alla censura alcuni capitoli della nostra opera, qui accenniamo brevemente ai procedimenti dalla medesima tenuti intorno ad alcuni lavori d’uomini di lettere universalmente conosciuti.

D’ordinario il padre Mauro, quando negli scritti che gli si davano ad esaminare non ci vedeva chiaro, implorava i lumi superiori. Si vede che l’accorto frate, quanto a responsabilità, taceva di tutto perchè la sua restasse il meno possibile allo scoperto. Così, nel 1833, avendogli presentato un editore le Mie Prigioni, di Silvio Pellico, che l’anno innanzi avevano veduto la luce a Torino ove avevano destato un gran rumore, il nostro scolopio fintò nel libro dell’ex-galeotto dell’Austria, malgrado la rassegnazione cristiana che traspariva da tutte le sue pagine, se non un grido di guerra, certamente una protesta contro l’oppressore straniero, e scrisse al ministro Corsini perchè giudicasse [p. 193 modifica]dell’opportunità o no della ristampa; e il Corsini, che in quei giorni, a motivo d’una certa pubblicazione dell’Antologia, aveva sudato due camicie per persuadere il ministro di Sua Maestà Cesarea che alla fin fine la Toscana non era una fucina d’insidie e di complotti contro l’apostolico imperatore, rispose asciutto asciutto: „Non si stampi.„ Ma il Nistri, di Pisa, senza curarsi del decreto, colla falsa data d’Italia, ristampò il libro, vendendone, in pochi giorni, più di settecento copie: però scoperto, fu condannato ad una multa di centocinquanta lire, col sequestro degli esemplari rimasti invenduti. L’Ettore Fieramosca, del D’Azeglio, non fu ristampato che con prudenti tagli concertati con lo stesso ministro, e i Discorsi sulla Storia Lombarda del secolo XVII, di Cesare Cantù, benchè editi a Milano, presentati alla censura fiorentina per la ristampa, furono respinti all’autore „senza approvazione, perchè egli (il Cantù) volesse modificare e sopprimere qualche sentimento poco conveniente„ come scriveva lo stesso censore.

Nel 1832, avendo un editore domandato il permesso di ristampare la Storia d’Italia, in continuazione di quella del Guicciardini, di Carlo Botta, il censore, in un lunghissimo rapporto al ministro dell’interno, passò in esame le massime contenute nel libro e da lui stimate false, o erronee, o pericolose; ma arrivato al punto di emettere il suo giudizio sull’insieme dell’opera, se la cavò pel rotto della cuffia, implorando i soliti lumi superiori, avendo però la cura di esporre le ragioni che, secondo lui, militavano pro e contro la ristampa. Le prime pel P. Mauro, erano: merito eminente dell’opera; copia di massime rette; prevenzioni favorevoli alla Toscana, alla quale l’autore prodigava lodi senza misura; vantaggio che ricaverebbe l’industria tipografica e libraria del Granducato, ove si accordasse il permesso di ristampare l’opera. Le seconde erano: presunti giusti clamori del clero superiore che non avrebbe mancato a far sentire la sua voce contro un’opera in cui parecchi papi erano aspramente tartassati; maldicenze contro il clero regolare; alcuni cenni sul Granduca Pietro Leopoldo che il [p. 194 modifica]Botta presentava come giansenista; danni della lettura d’un siffatto libro presso la gioventù.

Al ministro parve che le ragioni contrarie soverchiassero le favorevoli, e con nota del 23 novembre 1832, don Neri non accordò il permesso, ritenendo che anche il sistema delle soppressioni seguito per altre opere, sarebbe riuscito inutile in quella del Botta in cui oltre la parola era da censurarsi lo spirito di cui era da cima a fondo informata.

Nel 1833, fu domandato il permesso di ristampare le Satire di Salvator Rosa. Qui la politica, naturalmente, non ci aveva nulla da vedere, benchè il poeta-pittore-soldato del secolo XVII, nelle sue rime, non manchi di assalire con sopraffina mordacità le corti e i principi dei suoi tempi. Ma a questo, il padre Mauro pensò che si sarebbe potuto facilmente provvedere con sapienti e sagaci interpolazioni o raffazzonature: ma ciò che turbava la sua onesta coscienza di scolopio era il linguaggio di quando in quando licenzioso del poeta. Però ripensandoci su, egli stimò che anche su questo punto si sarebbe potuto provvedere collo stesso sistema. La qual cosa il buon padre perpetrò con una serie di scellerati mutamenti, di cui diamo un breve saggio.

Il Rosa aveva cantato:
          In corte, chi vuol essere ben voluto,
          Abbia poco cervello in testa accolto,
          Sia musico, o ruffian, ma non barbuto.

Il padre Mauro corresse:
          Colui che brama esser ben voluto
          Abbia saggio cervello in testa accolto,
          Sia musico o buffon, ma non barbuto.

Il Rosa aveva scritto:
          Stolidezza dei principi e dei regi
          Che senza distinzion mandano al pari
          Cogl’ingegni plebei, gl’ingegni egregi.

Il censore corresse:
          Stolti color che dean stimare i pregi
          Che senza distinzion mandano al pari
          Cogl’ingegni plebei, gl’ingegni egregi.

Sicuro, sapienti e sagaci modificazioni che toglievano alle satire del Rosa il loro spirito mordace ed originale!... [p. 195 modifica]

Qualche anno innanzi, avendo G. P. Vieusseux presentato alla censura un’analisi del Giovanni da Procida, del Niccolini, ricca di molti pezzi tratti dal manoscritto della tragedia e coll’intento di pubblicarla sull’Antologia, il censore interrogò il ministro sull’opportunità, o no, di licenziare l’articolo per la stampa, perchè „il difetto che sembra trovarsi nei versi, che in abbondanza si riferiscono, è un’intemperante smania d’inveire contro i francesi, colla mira fors’anco di dirigere i proprî sentimenti contro qualunque straniera nazione che abbia avuto, o abbia ancora influenza politica in Italia, sebbene non vi si faccia menzione che dei soli francesi.....„ Ed aggiungeva: „È uso attuale specialmente di considerare serva e schiava l’Italia, e nelle tragedie si crede di trovare il luogo opportuno per simili rimproveri, che sebbene applicati a fatti particolari ed a tempi passati, s’intendono applicati ai tempi ed ai casi presenti.„

Come si vede, il buon padre Mauro non aveva avuto bisogno di un ingegno d’aquila per fare una simile scoperta!