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censura pontificia, napoletana o modenese. Già, a certe materie, in Toscana, non era stato dato lo sfratto; ed entro certi limiti vi si poteva parlare e scrivere di casse di risparmio, di strade ferrate, di libertà economica, di miglioramenti, di redenzione di condannati liberati dal carcere, di insegnamento primario e d’asili infantili. La stessa parola progresso non era posta all’indice; s’intende progresso colla cappa di piombo e i calzari di feltro, per paura che non corresse di troppo non svegliasse i custodi di questo sepolcro di viventi ch’era allora l’Italia, sopratutto il principe di Metternich a cui i congressi di Vienna, di Lubiana e di Verona avevano dato l’incarico di cloroformizzare gli spiriti. Era, insomma, una censura decente, che la divisa dello inquisitore fanatico e medievale nascondeva sotto quella dello scolopio intelligente e sino ad un certo punto ammodernato, coll’aggiunta d’un zinzino di bonomia cui più d’una volta doveva essere corretta dalla stessa Polizia, o peggio, come accadde per l’Antologia, dalla stessa Cancelleria Aulica, la quale, si capisce, afferrava con voluttà quelle congiunture per dare una patente d’ingenuità al padre Mauro, alla Presidenza del Buon Governo, e, magari, a don Neri Corsini e al conte Fossombroni.

Mentre in altro luogo dedichiamo alla censura alcuni capitoli della nostra opera, qui accenniamo brevemente ai procedimenti dalla medesima tenuti intorno ad alcuni lavori d’uomini di lettere universalmente conosciuti.

D’ordinario il padre Mauro, quando negli scritti che gli si davano ad esaminare non ci vedeva chiaro, implorava i lumi superiori. Si vede che l’accorto frate, quanto a responsabilità, taceva di tutto perchè la sua restasse il meno possibile allo scoperto. Così, nel 1833, avendogli presentato un editore le Mie Prigioni, di Silvio Pellico, che l’anno innanzi avevano veduto la luce a Torino ove avevano destato un gran rumore, il nostro scolopio fintò nel libro dell’ex-galeotto dell’Austria, malgrado la rassegnazione cristiana che traspariva da tutte le sue pagine, se non un grido di guerra, certamente una protesta contro l’oppressore straniero, e scrisse al ministro Corsini perchè giudicasse dell’opportu-