Misteri di polizia/XXV. Uno scritto di Carlo Botta. - Uno scrittore di epigrammi
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CAPITOLO XXV.
Uno scritto di Carlo Botta.
Uno scrittore d’epigrammi.
L’Antologia fu per quasi tredici anni il solo giornale italiano, che — nonostante la censura — rappresentasse, ora più ora meno velatamente, il pensiero e le aspirazioni dei liberali della penisola. Era, come se ne rammaricavano i codini e le polizie italiane, specie di Modena e di Milano, una continuazione del famoso Conciliatore di carbonaresca memoria, con tendenze sovversive assai più accentuate, pubblicandosi il giornale in un paese dove la censura era esercitata piuttosto benevolmente e il principe non esigeva, come il sire austriaco, che i sudditi fossero ignoranti, ma obbedienti.
Le tendenze liberali dell’Antologia non erano, per altro, un mistero per la stessa censura e pel dipartimento della Polizia. Difatti, nel 1826, quando il Vieusseux presentò alla revisione uno scritto di Carlo Botta intitolato: Del carattere degli Storici Italiani, il censore, ch’era il già ricordato scolopio, P. Mauro Bernardini, in un suo lungo rapporto al Presidente del Buon Governo, non nascondeva come l’Antologia, sia per lo spirito degli scritti che pubblicava e che le mutilazioni e i raffazzonamenti ordinati o eseguiti dalla censura non arrivavano sempre a far scomparire, sia per le opinioni che in materia politica professavano gli scrittori che vi collaboravano, fosse ritenuta por un’effemeride liberale; ed era appunto tale riputazione che s’era creata in Toscana e fuori l’Antologia, che lo tratteneva di licenziare definitivamente per la stampa lo scritto del Botta, alcune parti del quale erano improntate ad un tale spirito di libertà, da non potere ammettere le solite soppressioni, comecchè in Toscana — aggiungeva il tollerante scolopio — si fosse piuttosto di manica larga per gli scritti di argomento politico e non si ricorresse al rigore che nelle materie di religione e di morale: lo che — osservava melanconicamente il pio censore — non accadeva nel Lombardo-Veneto, ove la censura era rigida in materia politica, e corrente, forse molto corrente, in materia religiosa.
Il caso parve gravissimo allo stesso Presidente del Buon Governo, anche perchè lo scritto del Botta, oltre a qualche massima liberalesca, che la censura avrebbe facilmente potuto sopprimere, conteneva un certo giudizio sul Principe del Machiavelli, trasudante da ogni frase, da ogni parola uno spirito, come allora si diceva, antipolitico, se non addirittura sovversivo e ribelle ai soliti tagli. Invocava quindi alla sua volta, anche in considerazione della fama che godeva lo scrittore, i lumi superiori. E i lumi superiori, che poi erano quelli di don Neri Corsini, vennero subito sotto forma di un biglietto, col quale si ordinava che lo scritto del Botta fosse soppresso. Don Neri lo giudicava in alcune parti pieno di spirito anti-papale, in alcune altre sovversivo, quasi fosse stato meditato e scritto in una vendita di Carbonari. E in quei giorni, non in Toscana, ma nel Lombardo-Veneto, i Carbonari si condannavano alla galera, e nello Stato Pontificio, senza tanti complimenti, impiccavano.
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Noi abbiamo potuto esaminare, fra le carte dell’Archivio della Polizia toscana, lo scritto del Botta, e benchè oggi lo studio della storia proceda con criteri diversi di quelli ch’erano in voga ai tempi del celebre scrittore piemontese, pure quella scrittura può anche oggi ritenersi non isfornita d’importanza. Imperocchè, se le storie letterarie nostrane sono piene di giudizi sui nostri principali storici, segnatamente su quelli del cinquecento, pure, per le condizioni dei tempi in cui vissero tutti coloro che li pronunziarono, essi non prendono in esame che il letterato, poco l’uomo, non mai il politico. All’incontro, il Botta, nello scritto destinato all’Antologia, non considera i nostri storici che da quest’ultimo lato, lasciando assolutamente in disparte le solite quisquilie di lingua e di stile: lo che, in Italia, nel 1826, quando messer Francesco Guicciardini non era chiamato Principe dei nostri storici che per la magniloquenza delle arringhe dei suoi personaggi e il giro maestoso dei suoi periodi, e messer Niccolò Machiavelli, da oltretomba, doveva difendersi dalla taccia di non aver saputo bene il latino e da quella di scriver male l’italiano, era una vera e grossa eresia — una di quelle eresie che allora mettevano in iscompiglio le quiete sale delle accademie più o meno cruscheggianti e facevano scendere in campo i letterati gli uni contro gli altri formidabilmente armati di testi di lingua più o meno autentici, più meno guasti da amanuensi e stampatori.
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Comincia il Botta il suo discorso coll’osservare che, nonostante „che sia fine degli storici di far conoscere la verità, pure assai pochi sono stati quelli che hanno servito unicamente a lei, avendo alcuni servito l’amore delle parti, mentre altri si sono lasciati tirare, richiesti od anche non richiesti, dagli allettamenti dei potenti. Di questi non vogliamo parlare, perchè meritarono piuttosto il nome di uomini bugiardi e servi, che quello di storici. Solo vogliamo parlare di quelli che alla verità sola servirono, o da lei non per motivi vili d’interesse o di potenza, ma per cagioni alte e generose più o meno si discostarono.
„Degli antichi storici, Tito Livio e Cornelio Tacito debbono occupare principalmente il nostro discorso. Il primo è più storico patrio, che morale; il secondo più morale che patrio, benchè l’uno e l’altro e patrii e morali sieno stati. Il fine di quello era di scrivere la storia di Roma... Quella sua gravità e grandezza nemmeno in Cicerone si trova, nemmeno in Sallustio, nemmeno in Tacito. Livio solo fu pari alla romana mole... Con tutto questo, non di rado, per far risplendere la sua Roma, tace la verità od imperfettamente la dice...
„Il fare di Tacito fu necessitato dalla età in cui visse. Era spenta la repubblica, spenta la libertà; di loro vivevano solamente alcune forme; vizî infami in chi comandava, vizî vili in chi obbediva... Lo scrittore ha dovuto essere piuttosto morale che patrio, poichè essendo la patria perduta non restava altra pianta da coltivare se non la virtù... Ciò fece Tacito... Pure l’anima sua forte, indomita e sdegnosa, amò la libertà e la pinse; e la pinse come perduta e solo come una memoria... Quando io leggo Tacito, mi vien rossore di noi balbuzienti; e dei nostri articoli, dei nostri ma, de nostri se, e dei verbi ausiliari e dei participî per arrivare, nelle traduzioni, alla potenza del suo stile...„
Facendosi indi a parlare degli storici d’Italia del secolo XVI, egli scrive: „Due scuole si vedono in Italia: la veneziana e la fiorentina. Gli storici veneziani, siccome pagati e scrivendo sotto un Governo di natura molto stretta nelle faccende di Stato, sono piuttosto encomiatori di Venezia che veri scrittori di storie, ed indarno in loro si cercherebbe la verità dei fatti e l’imparzialità de’ giudizi. Ciò nondimeno sono essi pregiabilissimi, perchè, avendo avuto facoltà di prevalersi degli archivi pubblici... si leggono nelle loro narrazioni cose che difficilmente si troverebbero in altri... Il Bembo, allontanatosi di soverchio dalla gravità di Livio e dal fare nervoso di Tacito, affettò con eccesso l’abbondanza ciceroniana... Contrastavano in lui due qualità contrarie: il candore antico di cui s’era investito nella lettura degli antichi, e il desiderio di servire gli interessi della sua patria. La prima il tirava a dire la verità, la seconda a tacerla...
„Fra gli storici veneziani, uno fra gli altri si scorge, che può andare del pari con ogni altro di qualunque secolo nazione si sia; questi è Paolo Paruta, simile piuttosto a Machiavelli....„
Di fra’ Paolo Sarpi il Botta scrive:
„La sua Storia del Concilio Tridentino è una di quelle opere che mostrano la capacità più rara; a lei poche sono pari, nessuna superiore. Due qualità speciali si osservano nel Sarpi: la prima è una avversione molto intensa contro la Corte di Roma, la cui cagione è doppia, cioè dall’un lato gli eccessi veramente inescusabili1 della Curia romana verso la podestà temporale dei principi, dall’altro la sua propensione verso le dottrine dei protestanti: la seconda è il suo amore verso un Governo stretto; ed in ciò pensava venezianamente... „Resta però e resterà sempre un onorando segno di Sarpi nello avere insegnato ai Veneziani... il modo e la volontà di resistere alle pretensioni di Roma, rispetto alle prerogative della podestà secolare.„
Parlando della scuola fiorentina dice: „Era imparziale e veridica la scuola fiorentina... In lei l’amore della imparzialità e della verità è tale, ch’è meravigliosa, perchè questa parte è osservata dagli storici fiorentini, anche contro i sentimenti propri da ognuno conosciuti; anche contro l’amore della propria patria; anche, finalmente, contro l’opinione e il favore di coloro per cui scrivevano ed a cui avrebbero dovuto cercar di piacere... Se sono quindi veri, sono ancora freddi; illuminano la mente, ma non riscaldano il cuore.„
E continua citando l’esempio del Varchi, il quale, scrivendo la sua Storia di Firenze d’ordine di Cosimo I, non ingiuriò, ma esaltò la caduta libertà, non risparmiando nello stesso tempo parole di fuoco contro i suoi distruttori e il primo duca di Casa Medici. Ma qui il P. Mauro osservava come nel Varchi il dire siffatte verità non fosse virtù: imperocchè egli sapeva come dicendo male e di Clemente VII e del suo bastardo Alessandro, facesse cosa grata a Cosimo, suo padrone, che non aveva amato nè l’uno nè l’altro.
Del Guicciardini il Botta fa rilevare il suo amore al partito degli ottimati e il suo operare favorevole a Cosimo I, ed aggiunge: „Malgrado di tutto questo, egli, descrivendo le rivoluzioni della sua patria, non solamente non cercò di denigrare i popolani, ma ancora rende loro, quando occorre, ogni giustizia, nè tace i vizi e gli errori della parte degli ottimati.„
Scendendo a parlare del Machiavelli, osserva: „A Machiavelli commise papa Clemente che scrivesse le cose fatte dal popolo di Firenze, imponendogli e raccomandandogli di descrivere quelle dei suoi maggiori in modo che si vedesse ch’ei fosse discosto da ogni adulazione. Adempì Machiavelli il precetto di Clemente...„
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Ma dove il Botta, nonostante lo stile parecchio compassato, si manifesta pensatore acuto e profondo è nel giudizio ch’egli dà del Principe del Segretario fiorentino — un giudizio che a noi, anche dopo tanti scritti recenti, sembra il migliore, perchè il più vero che sia stato proferito sulla famosa opera del più grande dei nostri scrittori politici.
„Quanto al suo Principe, non so se sia più assurda o ridicola cosa ch’ei lo scrivesse sotto colore di svelare il procedere dei tiranni per ammaestramento degli amici della libertà; chè, primieramente... il Machiavelli compose questo trattato per uso privato di Lorenzo duca d’Urbino e non lo destinava punto alla stampa; secondariamente egli medesimo volle spegnere quest’opera dopo il rivolgimento dello Stato di Firenze, non essendo ancora stampato. Dunque, era nimico di libertà?.... Qui è d’uopo guardare in viso la questione.... Signorsì.... il Machiavelli scrisse il Principe per insegnare al duca Lorenzo i modi di farsi assoluto signore; alcuni dei modi suggeriti sono dannabili, ed egli stesso il dice; ma vediamo il fine. Voleva il Machiavelli che Lorenzo o altro principe di Casa Medici si facesse signore assoluto e sopratutto si provvedesse di buone e proprie armi per fare l’Italia potente e liberata dai barbari; questo è il vero proposito dell’opera....„
E il Botta, dopo aver citato il celebre capitolo che chiude il Principe, continua: „Il suo intento era dunque la liberazione dell’Italia dal dominio dei forestieri. Ora mettiamo che Lorenzo duca d’Urbino o altro principe di questa famiglia, facendo quello che gli consiglia il Machiavelli fosse riuscito nel fine proposto; non sarebbe egli stato lodato da tutti? Non sarebbe stata la sua impresa stimata da tutti grande, pietosa, generosa, santa?„
E fu appunto perchè don Neri Corsini, ministro dell’interno, temeva che codesta impresa, la quale poteva ancora tentare l’ambizione o l’amor proprio di qualche principe italiano, fosse ritenuta santa e generosa dai felicissimi sudditi dei diversi Stati in cui allora si divideva l’Italia, si fu appunto per ciò che ordinò col suo piccolo ukase che la liberalesca scrittura del Botta aspettasse la tromba del giudizio sotto la polvere degli archivi della censura.
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Vogliamo ora evocare dalle carte dell’Archivio il nome d’un poeta perfettamente obliato. Chi conosce Gherardo Ruggieri, un poeta che nel 1826 avendo presentato alla censura per l’approvazione un suo volume di epigrammi, se lo vide tornare indietro mutilato, castrato, dimezzato?
Eppure il povero Ruggieri non meritava l’oblìo. Il suo spirito, se non era sempre di buona lega, sapeva portar via qualche pezzo di pelle dal corpo di coloro sui quali cadeva sotto forma d’epigramma; la qualcosa (il signor lettore ci crederà sulla parola) per un autore satirico non è un pregio da disprezzarsi.
Intanto ecco un saggio dogli epigrammi del Ruggieri rimasti inediti per forza maggiore. Come tutto ciò che è stato un pezzo sottoterra, i versi del nostro poeta hanno già l’apparenza della vecchiezza, e presentano un’aria di stretta parentela con quelle piccole statue di bronzo che ritirandosi dagli scavi si rinvengono coperte d’un denso e rugoso strato di verderame, che le fa rassomigliare non ad immagini di numi o di semidei, ma a riproduzioni realistiche di lebbrosi.
I seguenti tre epigrammi portano il veto del censore ecclesiastico, il padre Mauro Bernardini, sotto le cui cesoie, come dicemmo, per tanti anni, passò il pensiero letterario e scientifico della capitale della Toscana:
Un buon pievano a Serafin pittore |
Un re poco erudito |
Coll’amorosa un giovane fuggìa, |
La Polizia fu più severa del buon padre Bernardini, imperocchè ne soppresse molti altri. Il seguente, probabilmente, fu soppresso per riguardo allo stesso Presidente del Buon Governo, l’illustrissimo signor cavaliere Aurelio Puccini, il quale, prima d’essere il ministro di Polizia di un Governo assoluto, era stato uno dei più caldi giacobini dell’Italia redenta dai francesi di Bonaparte.
Seguace già di Bruto, |
L’epigramma che segue sarà stato probabilmente proibito in omaggio all’inclito e benemerito corpo dei poliziotti:
Un Bargello si lega a vaga e bella |
Ricordano Napoleone e la sua signoria i seguenti epigrammi:
Francia in catene |
A Pio nei lacci oppresso. |
In un’isola nacqui: |
Scorticavano due avvocati i seguenti:
Pregava un avvocato a un crocifisso: |
— Chi ti vendè quel Cristo del Cellini? |
— Eh, non importa mica; |
Eccone uno per un ciambellano:
L’aurea chiave che or ora a te di dietro |
Il seguente è per un nuovo nobile:
Fulgenzio ha compilato la sua impresa: |
Eccone ancora due e poi smettiamo:
Il conte Anselmi alla sua tavola ha |
Quando Ascanio tu fatto podestà |
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Probabilmente il povero Gherardo Ruggieri, dopo l’evocazione che ne abbiamo fatta in queste pagine, ritornerà nella oscurità a cui fu condannato dai suoi contemporanei con una sentenza, che i posteri non hanno revocato. Ma egli, nel silenzio della tomba in cui giace, potrà consolarsi della severità del giudizio che il mondo portò della sua opera poetica, pensando che se i poeti spuntano sù a migliaia, i veri, i grandi, quelli che l’oblio risparmia, si contano sulle dita della mano. — Riflessione che dovrà sembrare parecchio amara al povero Ruggieri; ella dirà signor lettore; e noi risponderemo: — Non diciamo di no; ma laggiù, nei regni della morte, l’uomo si spoglia delle sue passioni sì grandi che piccine, e il nostro poeta, a cui certamente l’amor proprio non dovrà più far velo all’intelletto, sarà costretto a convenire con noi, che se il tempio dell’immortalità è la mèta ambita da tutti coloro che grattano la lira, sono pochi, assai pochi quelli a cui esso schiude a due battenti le sue porte. La maggioranza, come gli scomunicati del medio-evo, deve contentarsi di adorare il nume, stando fuori all’aperto.
Note
- ↑ Le parole in corsivo sono quello che il P. Mauro — il censore — aveva soppresso; ma, come abbiamo detto, quando arrivò al giudizio sul Machiavelli, al buon frate caddero le braccia e con queste le cesoie. Ci voleva altro che la prosa dello scolopio per cucinare lo scritto del Botta nella salsa del tempo!