Miscellanea Numismatica/Di un piccolo ripostiglio di monete
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III.
DI UN PICCOLO RIPOSTIGLIO DI MONETE.
Rimasto abbandonato un pegno al Monte di Pietà di Treviso, era venduto all’asta come di uso. Ebbi conoscenza dell’acquisto tardi, ma ancora in tempo per trarne qualche utile deduzione.
Dal modo ond’era composta quella partitella di monete, m’accorsi subito ch’essa doveva provenire da un ripostiglio, e giudicai che lo stesso scopritore, forse per tema di essere chiamato a darne ragione, l’avesse depositata al Monte.
L’aspetto generale di quelle monete, era tale da far credere che il nascondiglio dì esse possa essere stato il muro di qualche vecchio edifizio. Non sono trascorsi molti anni dacché, lavorandosi in quella città intorno a certe opere del Sile, si rinvenne nel suo letto grande numero di soldini veneti della seconda metà del secolo decimo quarto, ch’erano tutti fortemente anneriti dalla ossidazione. Le attuali monete invece erano lampanti ed in parte ricoperte di un fino polviscolo biancastro, e la generale ottima conservazione di esse dimostrava che poco tempo avessero circolato.
Quanto al numero delle monete di quel tesoretto, non posso indicarlo che per approssimazione, per le specie ch’erano più numerose, laddove, per quelle che si rinvennero uniche od in pochi esemplari, posso dichiarare esatta la nota che segue.
Ecco di quale monete era composto il tesoretto:
monete venete. | |
esemplari | |
Grosso di Jacopo Tiepolo | 1 |
Grosso di Andrea Contarini | 2 |
Grosso di Antonio Venier, circa | 40 |
Soldino dello stesso, circa | 30 |
Grosso di Michele Steno, circa | 110 |
esemplari | |
Soldino dello stesso, circa | 25 |
Soldino dello stesso col Cristo risorgente, circa | 60 |
Tornese (?) di Dalmazia | 4 |
monete di padova. | |
Carrarino di Francesco I con S. Prosdocimo | 4 |
Carrarino dello stesso con S. Daniele | 3 |
Carrarino di Francesco II, circa | 14 |
monete di aquileja. | |
Denaro del patriarca Marquardo | 2 |
„ di Filippo d’Alençon | 1 |
„ di Giovanni di Moravia | 3 |
„ di Antonio Gaetani, circa | 15 |
„ di Antonio Panciera, circa | 60 |
Monetina esotica | 1 |
Numero totale approssimativo | 375 |
Pel tempo in cui furono improntate cotali monete, esclusa quella di Dalmazia e la esotica, delle quali dirò più avanti, valga il seguente prospetto:
Jacopo Tiepolo | 1229-1249 |
Andrea Contarini | 1368-1382 |
Antonio Venier | 1382-1400 |
Michele Steno | 1400-1413 |
Francesco I da Carrara | 1355-1388 |
Francesco II da Carrara | 1388-1405 |
Marquardo | 1365-1381 |
Filippo d’Alençon | 1381-1388 |
Giovanni di Moravia | 1388-1394 |
Antonio Gaetani | 1395-1402 |
Antonio Panciera | 1402-1418 |
L’epoca più vicina risulta adunque essere quella del Patriarca Antonio Panciera, ma poichè il tesoretto non palesò alcuna moneta di Tommaso Mocenigo, che tenne la somma podestà della Repubblica, dall’anno 1414 al 1423, e fu quindi per molti anni contemporaneo al Panciera, devesi argomentare che i molti denari di costui che facevano parte di esso tesoretto siano stati battuti nei primi anni del suo patriarcato, e che il nascondiglio del piccolo peculio abbia avuto luogo sotto il dogado di Michele Steno che a comporlo contribuì colle sue monete più di alcuno degli altri principi nominati.
La monetina non peranco qualificata, della quale piacemi riportare il disegno al n. 9 della stessa tavola, sorpassa gli angusti limiti delle mie cognizioni, ma se volessi credere alla autorità, non sempre sicura, del Welzl1, spetterebbe a Mirxe II, principe di Valacchia, che tenne il potere negli anni 1419-1420. Se così fosse quel denaretto sarebbe in ordine di tempo posteriore a tutte le altre monete del tesoretto, e dimostrerebbe che non al tempo dello Steno, ma a quello bensì di Tommaso Mocenigo dovrebbe riferirsi ii suo occultamento. Ma poiché ciò sembra inverosimile, per la già esposta ragione della totale assenza di monete di quest’ultimo, e pel fatto della più lontana derivazione del danaretto in questione, credo poter conchiudere, piuttosto che a Mirxe II, spetiare egli debba a Giovanni Mirxe di lui padre, che resse lo scettro dei Voivodi agli anni 1393-1419, e ciò che vedesi delle sue iscrizioni rafforza tale ipotesi.
Ostende quel denaro sul lato principale la figura del principe, che tiene colla destra un’asta e colla sinistra il globo crucigero. Sul rovescio vedesi l’arme di lui, cioè uno scudo inclinato, partito, colla prima partizione fasciata., e la seconda caricata di una lettera simile ad una T di forma gotica. Lo scudo è sormontato da un elmetto col cimiero di un’aquila, e l’iscrizione suona d’ambo i lati ugualmente, cioè: † iωmdpdr. Il suo peso è di grammi 0,240.
È probabile che tale moneta abbia circolato quale un soldino, unitamente ai nominati soldini ducali, che in quel tempo molta era la confusione e soltanto bandi e leggi severe potevano infrenare il corso abusivo delle monete d’altri paesi.
Giovi notare che, fra circa quaranta grossi del doge Antonio Venier, non uno eravi di quelli del primo stampo da lui usato, col rovescio privo del motto: gloria . t . soli, e ciò proverebbe che pochissimi ne siano stati battuti, e spiegherebbe l’attuale loro estrema rarità. All’incontro il soldino di Michele Steno, col tipo di G. Cristo uscente dal sepolcro, che fino ad ora avevasi in conto di raro, mercè questo ritrovo, che ne offerì circa sessanta esemplari, divenne comune.
Altra particolarità degna di rimarco è questa, che tutti i carrarini di Padova avevano una piegatura in traverso, fatta a mano, e ciò potrebbe avere rapporto colla notizia riferita da Rambaldo degli Azzoni, nel suo Trattato della zecca di Treviso2, che nell’anno 1355 i carrarini fossero in Treviso esclusi dal commercio, con bando del governo di Venezia del 15 dicembre, e che nel 1379, tanto i vecchi quanto i nuovi carrarini, venissero banditi da Venezia e da tutte le altre città e terre a lei soggette. Questa guerra alle monete dei signori di Padova fu un preludio dell’altra più seria che la Repubblica mosse agli stessi Carraresi, che nell’anno 1405 finì colla totale loro rovina.
Di questi carrarini, il solo che presentasse qualche differenza da quelli riportati dal Verci, era uno di Francesco II, colla sigla ჰ del zecchiere Giovanni degli Arienti, posta alla sinistra anziché alla destra del Santo.
Tralascio altre riflessioni che potrebbe inspirare la riunione di quelle monete, l’occultamento delle quali sarà stato motivato da mera avarizia, per dire qualche cosa della moneta di Dalmazia, la quale fra tutte era indubitamente la più interessante.
Quattro erano gli esemplari di essa, due integri e due mancanti, ma tutti di conio sì fresco da far credere che poco o nulla avessero circolato (Tav. II, n. 7 e 8).
Il compianto illustre autore del trattato delle Monete dei Possedimenti Veneziani, in base di un decreto dell’anno 1410, contenuto nel Capitolare delle brache, conchiuse3 che in quell’anno si battesse nella zecca di Venezia per uso della Dalmazia questa moneta alla quale egli stimò poter assegnare il nome ed il valore di un tornese, la quale specie di moneta viene da lui più avanti4 determinata pari a quattro bagattini, ovvero alla terza parte del soldo. La comparsa di quattro esemplari della moneta Dalmatiae nel nostro tesoretto, nel quale primeggiavano per numero le monete del doge Michele Steno (1410-1413), viene ottimamente in appoggio dell’argomentazione del Lazari, che tale moneta sia stata battuta nel tempo di quel doge. Non così posso convenire con lui sul valore per cui tale moneta sia stata emessa. Ma se la sua deduzione riuscì, a mio vedere, su questo punto meno esatta, devesi di ciò accagionare unicamente la meno che mediocre conservazione dell’unico esemplare ch’egli potè esaminare di questo cimelio della veneta numismatica.
Tutti quattro gli esemplari in discorso, anziché mostrare la lega bassa dei tornesi battuti per il Levante, apparivano fatti di un argento di poco inferiore a quello dei soldini di Michele Steno, ed il peso riscontrato in essi era di grammi 0,650; 0,720; 0,780; 0,840; e però circa il doppio di quello dei predetti soldini, che in molti ottimi esemplari trovai costantemente di grammi 0,410. Da ciò credo poter dedurre che tale moneta sia stata emessa per il valore di un mezzanino di grosso, ovvero per due soldi, ed il vedere come più tardi la monetazione da due soldi o gazzetta fu spesse volte realizzata nelle monete destinate ad aver corso nella Dalmazia, mi conferma maggiormente in questo pensamento.
In altro errore, meno facile a giustificare, incorse il Lazari a proposito dello scudo raffigurato sulla moneta Dalmatiae, il quale presentogli ardua ed insormontabile difficoltà. Parendogli scorgere in esso l’arme dei Contarini, e non sapendo a quale personaggio di questa famiglia potesse attribuirsi, immaginò, ma senza averne molta persuasione egli stesso, che tale moneta fossesi da prima battuta sotto la ducea di Andrea Contarini (1368-1382), e che rinnovandosene la battitura nel 1410, si conservasse il vecchio tipo. Come mai a quell’occhio cotanto sicuro potè apparire quello scudo spartito in rombi verticalmente disposti, se già in quel poco felice disegno del suo libro eseguito da un logoro esemplare, scorgesi distintamente lo scudo caricato di una banda scaccheggiata a tre ordini? Di più, come potè egli affermare che l’arme dei Contarini fosse rombeggiata, se nessuna fra le tante armi che portavano i vari rami di quel casato, quali vedonsi nelle opere del Coronelli, del Frescot e d’altri, è di tale foggia?
Ma anche tali abbagli diventano perdonabili per chi sa quanto tempo e fatiche esigano i lavori positivi della scienza, e per chi conosce la genesi di quel libro, fatto per una speciale circostanza, nel brevissimo tempo di poche settimane, esclusa ogni possibilità di revisioni e di correzioni.
L’arme raffigurata sul mezzanino di Dalmazia, non è adunque quella dei Contarini, ma piuttosto di una delle due famiglie Surian, cioè d’oro, con una banda a tre ordini di scacchi, d’argento e di negro. Ciò erasi di già avvertito nell’opera che porta il titolo: Storia dei dogi di Venezia, e viene in conferma dell’assioma, non esservi libro tanto cattivo che non contenga alcuna buona cosa.
Restami ancora a rilevare la singolarità di uno dei quattro esemplari rinvenuti di tale moneta, il quale offeriva lo sbaglio dell’arme disegnata a rovescio, per cui la banda scaccheggiata in essa fu convertita in sbarra. Le figure 7 ed 8 della tavola mostrano entrambe le varietà.
Sciolta una parte della non insormontabile difficoltà, rimane l’altra, ch’è quella di sapere quale fosse il Surian ch’ebbe autorità di tramandare la sua insegna sulla nostra moneta, siccome investito di offici dal governo della Repubblica in cose della Dalmazia. Chiarire questo punto non dovrebbe essere più arduo per quelli che hanno la pratica di così fatti studi e possono con agevolezza consultare le memorie che serbano gli archivi di Venezia.