Miscellanea Numismatica/Della zecca di Crema

Della zecca di Crema

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Miscellanea Numismatica Gli zecchini di stampo veneto della zecca di Trévoux
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MISCELLANEA NUMISMATICA1





I.


DELLA ZECCA DI CREMA.


Delle vicende di Crema, piccola ma generosa città che giganteggia nei fasti d’Italia per sublimi esempii di fortezza dettarono pagine accurate ed eloquenti Pietro Terni, Alemanio Fino, Carlo Sigonio, Giuseppe Racchetti, Francesco Sforza-Benvenuti, ed altri.

Scopo del presente articolo non essendo che quello di toccare brevemente l’argomento delle sue monete, sorpasserò quanto ad esso non si riferisce.

Sebbene Crema tardi fosse stata assunta al rango di città, perchè fino all’anno 1450 s’appagò con quello più modesto di terra o castello, pure l’importanza sua nella storia generale d’Italia fu tale, ch’è argomento di meraviglia come nei varii rivolgimenti di fortuna a’ quali andò soggetta, dalla sua fondazione fino al principio del secolo decimoquinto, mai abbia avuto zecca propria.

È questo un fatto che può francamente affermarsi, perchè nè memorie, nè monete stanno in appoggio del contrario, e conviene discendere fino all’epoca accennata, al tempo cioè in cui fu governata e dominata dai Benzoni, per rinvenire i rarissimi cimeli per cui essa pure prende posto, ristretto bensì ma onorevole, nella serie di ciò che si è convenuto denominare le Zecche d’Italia.

[p. 72 modifica]Chiarissima famiglia era quella dei Benzoni, la quale, secondo scrive l’accurato Terni, derivò dall’antichissima dei Greppi, per un figlio di Giovanni Greppo denominato Benzone: e Greppi e Benzoni valsero lungamente a dinotare lo stesso casato. Fu desso il più celebre fra tutti quelli che emersero in Crema, dove primeggiò lungamente per grado e per fortuna stando sempre alla testa del partito guelfo nel tempo in cui tutta l’Italia era scombuiata dalle civili contese delle due famigerate fazioni. Verso la fine del secolo decimosesto divenne quella famiglia cotanto numerosa che quasi potea da sé sola, come già quella dei Fabii in Roma, formare una schiera! Ebbe molti uomini distinti, particolarmente nelle armi, fra cui Venturino Benzone il vecchio, il quale nell’anno 1303, allorché Napo della Torre trionfò di Matteo Visconti, venne eletto capitano del popolo milanese; carica insigne che a lui ben si addiceva, perché guerriero di splendida fama e zelantissimo fautore di parte guelfa.

Di lui e degli altri illustri Benzoni v’hanno belle notizie negli autori nominati, e l’albero di questa illustre famiglia vedesi nel Campidoglio Veneto di Girolamo Alessandro Cappellari, opera manoscritta in gran foglio che conservasi in questa Biblioteca Marciana.

Dopo molti rivolgimenti di fortuna, caduta Crema nell’anno 1335 in potere di Azzone Visconti, perdette per sempre la propria sovranità e col cessare della forma repubblicana ebbe pur fine l’epoca più luminosa della sua storia. Spenta la libertà politica, tacquero le fazioni sotto le spire del serpe visconteo, ma divamparono nuovamente, dopoché Gian Galeazzo coll’oro e coi raggiri, ottenne, nel 1395, dall’imperatore Venceslao il titolo di duca, trasferibile ai suoi discendenti. Guelfi e Ghibellini affilarono di nuovo le spade per straziarsi a vicenda, ed a capo del partito guelfo stettero in Crema, come per lo passato, i Benzoni.

Morto nell’anno 1402 Gian Galeazzo, incominciò a sfasciarsi la potenza viscontea, edifizio aggregato colle conquiste, le compre e le usurpazioni e non cementato dall’opinione dei popoli, ed i partiti, infuriando con nuovo vigore, spianarono agli ambiziosi la via di farsi tiranni della patria loro.

Crema si ribellò a Gabriello Visconti, figlio naturale di [p. 73 modifica]Gian Galeazzo, che a lui donavala per testamento unitamente a Pisa, e venuti alle mani Guelfi e Ghibellini, dopo atroci vicendevoli rappresaglie, rimasero i primi vincitori, e per tal modo fu aperto il varco al dominio dei Benzoni, non altamente che avvenne a Brescia, a Como, a Cremona, a Lodi, a Bergamo ed in Parma, dove, da mezzo allo scompiglio delle lotte intestine, sorsero tirannelli di essa Pandolfo Malatesta, Franchino Rusca, Ugo Cavalcabò, Giovanni da Vignate, Francesco Scardi ed i Rossi.

Nell’anno 1403 il popolo di Crema abdicò la millantata sovranità, conferendola ai fratelli Paolo e Bartolomeo Benzoni. Tale signoria fu da molti scrittori qualificata usurpazione, e con ragione, che non era il generale suffragio dei cittadini cremaschi, ma la fazione guelfa capitanata dallo stesso Paolo, che diede ad essi il dominio; onde il Racchetti non esitò di asserire che i fratelli Benzoni prima si arrogarono il dominio di Crema, poi si fecero proclamare signori da una adunanza di cittadini, nella quale sindaci e consiglieri erano già istrutti di quanto dovevano fare2. E lo Sforza-Benvenuti aderisce a tale opinione: " perchè la storia di tutti i popoli insegna essere vecchia astuzia dei potentati adombrare colle forme della legalità le loro soperchierie „3. Noi, contemporanei di qualche grandioso fatto analogo, non ci opporremo a così vera sentenza.

Poco durò la signoria dei due fratelli Benzoni, perchè, colpiti dalla pestilenza che nell’anno 1405 desolò il suolo cremasco, morirono entrambi nel castello d’Ombriano dove eransi ritirati.

Nell’istromento d’investitura dell’anno 1403, era stato stabilito che a Paolo e Bartolomeo dovessero succedere i figliuoli nel dominio di Crema; disposizione che venne confermata col testamento di Paolo a favore dell’unico suo Rizzardo, e con quello di Bartolomeo a pro dei proprii, Daniele, Greppo e Trippino, ancora fanciulli. Come avvenne or dunque che nello stesso anno in cui morirono Paolo e Bartolomeo, [p. 74 modifica]Crema sia caduta in podestà di Giorgio Benzene cugino di quegli infanti? Vi hanno tutte le ragioni per credere che Giorgio abbia strappato col raggiro ai suoi parenti la signoria. Avvi bensì un istromento d’elezione riportato dal Fino, reddato a nome del Consiglio generale del Comune, ma desso non è che una ripetizione del modo già adoperato da Paolo e Bartolomeo, e per quanto Giorgio Benzone abbia saputo coonestare il fatto del suo dominio, apparisce chiaramente essere stato questo il frutto di doppia usurpazione.

Giorgio Benzone fu astuto, dispotico, rapace e generoso: toglieva colla destra per donare colla sinistra. Temendo di essere trabalzato dalla risorgente potenza dei Visconti, adoperò tutti i mezzi per guarantirsi la signoria, vendendo ed affittando i beni confiscati dai Ghibellini, fortificando castelli, innalzando torri gigantesche, facendo larga provvigione di armi, cambiando i castellani delle rocche, stringendo alleanza con altri tirannelli di Lombardia, implorando tregue dal Duca di Milano; ma tuttociò non valse che a differire la sua caduta.

Spento nell’anno 1412 il feroce duca Giovanni Maria sotto i colpi dei suoi avversarii, successe nel ducato il di lui fratello Filippo Maria, che non dirazzava dagli avi in perfidia e tenebrosa politica. Ben presto s’avvide Giorgio che non avrebbe potuto resistergli lungamente, e stabilì perciò di amicarselo mediante una transazione, rimettendo a lui parte di quella sovranità ch’erasi arrogata. Dopo nove anni di podestà assoluta, egli rinunziò nelle mani di Filippo Maria alla signoria di Crema, per esserne da lui investito colle prerogative di feudatario.

Addì 31 luglio 1414 fu stipulato nel castello di Pavia un accordo, il quale dimostrava quanto magra fosse la parte lasciata dal duca al nuovo suo vassallo, nel tempo stesso che indoravagli l’offa, investendolo del titolo di conte di Crema e di Pandino, trasferibile a tutta la sua discendenza mascolina. In quel mezzo, nell’anno 1407, la Repubblica di Venezia, smaniosa di estendere le sue conquiste in terraferma, riconoscendo importante di amicarsi il signore di Crema, avevalo insignito del raro e splendido privilegio della nobiltà veneziana.

[p. 75 modifica]Il Benzone fu zelantissimo nell’adempiere i patti che al duca lo legavano, sussidiandolo di denari e di milizie, e guerreggiando egli stesso col proprio figlio Venturino nell’esercito di lui; ma tanto fervore per mantenersi in quella grazia, non bastò a salvarlo, e gli stessi suoi figli diedero occasione al duca Filippo Maria di soppiantarlo nel dominio del territorio di Crema. Le insolenze e lascivie loro maturarono le vendette di alcune famiglie già partigiane dei Benzoni, le quali accusandolo di fellonia presso il duca, tramarono in pari tempo di privarlo di vita.

Giorgio, ch’era d’indole sospettosa, non tardò ad accorgersi del sinistro progetto, e, preso da subito timore fuggì da Crema nella notte del 24 gennaio 1423, e seguito dai quattro figli, incamminossi alla volta di Mantova, indi a Venezia, dove fu accolto onorevolmente ed accettata la sua spada in servizio della Republica. Così perdette per sempre la signoria di Crema, che tenne per nove anni con podestà assoluta, e per dieci quale feudatario del duca di Milano.

Giorgio Benzone, sono parole dello Sforza-Benvenuti, figura storicamente nella schiera dei tirannelli lombardi i quali dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti ghermirono un lembo del suo manto ducale; usurpatori tutti, per la più parte scelleratissimi, ma meno tristo degli altri, non macchiossi d’atroci delitti, e fu più sitibondo di denaro che di sangue, perchè d’oro necessitava onde sostenere la vacillante signoria.

Fra gli attributi sovrani da lui esercitati v’ha quello della moneta, che fece improntare col proprio nome. Inutile sarebbe il cercare le concessioni di tale attributo, il quale non fu che naturale conseguenza della sua usurpazione. Potrebbero ben esservi contratti di zecca ed ordini di battitura, ma poiché a tanti dotti investigatori della storia non riuscì fino ad ora di rinvenirli, rimane solo di attenersi alle scarse e rarissime monete che si hanno di lui, le quali non possono essere state battute che nel tempo in cui il Benzone fu assoluto signore, cioè dall’anno 1405 al 1414.

Scrive il Terni nella Scelta degli uomini di pregio: "Trovansi fino al dì d’oggi alcuni denari d’oro e d’argento di quelli che faceva battere il Benzone, i quali hanno d’un [p. 76 modifica]lato l’arma Benzona, col motto: In te Domine e dall’altro l’immagine d’esso Benzone, con lettere che dicono: Georgius Benzonus dominiis Cremae „, e ciò vien ripetuto senza alcun commento dagli autori che a lui successero. L’asserzione del Fino, per ciò che riguarda le monete d’oro del Benzone, non è finora comprovata e può ritenersi piaggeria di quello storico, che monete d’oro colle effigie di principi del grado di lui, nel principio del secolo decimo quinto, sono quasi irreperibili. Ne esistono però alcune d’argento e di lega, e tre ho potuto vederne, ricercando diligentemente nelle principali raccolte, una sola delle quali trovasi pubblicata dall’Argelati, nel tomo terzo della sua Raccolta, ma con figura tanto imperfetta che riprodurla con più esatto disegno diventa indispensabile.

La prima (Tavola II, n. 1), è un bolognino di buon argento fatto a similitudine di quelli che prima improntò Bologna intorno al 1236, e che furono poscia imitati per lungo tempo in molte altre zecche d’Italia. Da principio valutati un soldo, o la ventesima parte della lira, sminuirono successivamente di peso, salendo al valore di due soldi. E per due soldi stimo essere stato emesso questo del Benzone, il quale, per analogia con altri di quel tempo, dovrebbe avere il peso di circa grammi 1,100. Leggesi sul primo lato di esso, nel giro: f georgivs — benz, e nel mezzo con lettere disposte in forma di croce, intorno ad un cerchietto: onvs, sul secondo lato del giro: d . e . cre . m ., coll’ultima lettera a, di forma maiuscola, nel mezzo fra quattro simili cerchietti. Superiormente nel giro evvi uno scudetto triangolare, diviso orizzontalmente, col quale al certo si volle raffigurare l’arme del Comune ch’era divisa, di vermiglio e d’argento. Erano questi i colori del marchese Guglielmo di Monferrato, il quale donò il suo stemma ai Cremaschi, nell’anno 1185. Qui non vedesi che lo scudo, il quale nell’arme era inoltre, come in quella di Monferrato, sormontato da un elmo col cimiero di un braccio armato di spada, fra due corna di cervo, arme che distingue ancora quella città. Conservo un’impronta di questa bella moneta, e mi viene detto che un esemplare di essa trovasi nella raccolta del chiarissimo Sig. Cav. Camillo Brambilla di Pavia.

[p. 77 modifica]La seconda moneta del signore di Crema, ch’è di lega, a circa la metà di fino, trovai pesare grammi 1,000 in esemplare di buona conservazione. Giudico essere un soldino o la metà del bolognino. L’iscrizione del primo lato: † georgivs — † benzonvs, si completa con quella del rovescio, ove leggesi: dominvs f creme. 3 c. Nel mezzo del diritto vedesi l’arme dei Benzoni, uno scudo rotondato vaiato, col capo carico di un cane passante, nell’area del rovescio campeggiano le iniziali g. b. (Tav. II, n. 2).

È questa l’arme più antica dei Benzoni, e trovasi variamente raffigurata e descritta negli autori. Perchè se i più fanno lo scudo di vajo col capo d’azzurro caricato di un cane d’argento, alcuni dicono lo scudo padiglionato, altri pongono nel capo un leone, e così variano pure nei colori: ma è certa la prima lezione quanto all’arme che alzava Giorgio Benzone nel tempo in cui improntava codesta moneta. L’inquartatura vermiglia col leone d’oro ensifero, ch’egli aggiunse posteriormente, fu di concessione del duca Filippo Maria in occasione che insignivalo del titolo di Conte e l’arme così inquartata, non sempre degli stessi smalti, fu mantenuta nei varii rami della sua discendenza.

Di questa moneta esiste una moderna contraffazione, non difficile a riconoscere al taglio tozzo ed ineguale delle lettere, alla regolarità del contorno, all’argento troppo fino ed al peso troppo alto. Un esemplare ch’io conservo di cotal sciagurata manifattura pesa non meno di grammi 2,000, il doppio del peso riscontrato nella moneta genuina! Ma giova notare esservi anche qualche esemplare di minor peso, artificialmente ossidato, onde occultare la troppo finezza del metallo impiegato4.

La terza ed ultima moneta del Benzone è quella recata [p. 78 modifica]dall’Argelati, che n’ebbe comunicazione da Francesco Schiavini. Essa è di lega, come la precedente, e dal suo peso, che trovai di grammi 0,500, giudico essere la metà di quella, ossia un mezzo soldo. Offre consimili leggende, cioè, nel dritto. georgivs . benzonvs, e nel rovescio : dominvs . creme . 3'c, con uno scudetto d’ambo i lati, al principio di esse, il quale, non bene espresso nell’esemplare da me osservato, stimo essere l’arme del Comune, come nel bolognino. Lo spazio centrale, chiuso da un cerchio di perline, è occupato nel primo lato da una croce patente, e nel secondo da una grande g di forma gotica (Tav. II, n. 3). Nel disegno dell’Argelati la croce è inoltre accantonata da quattro punti che non rilevai nell’esemplare in discorso, di scadente conservazione.

Sono queste tutte le monete del Signore di Crema venute a mia conoscenza. Col tempo forse ne sorgerà qualche

[p. 79 modifica]altra, ma il numero di esse resterà sempre estremamente limitato, ed il possesso anche di una sola formerà ognora bel ornamento di qualunque più insigne raccolta. Le ragioni di cotale rarità sono facili a comprendere: fatte per uso esclusivo del piccolo territorio cremasco, il quantitativo di esse sarà stato assai limitato, e le ragioni politiche ed economiche dei governi succeduti a quello del Benzone, le avranno ben presto fatte sparire dalla circolazione.

Da documenti e statuti del principio del secolo decimoquinto apparisce che la moneta allora in uso era la lira imperiale, il cui rapporto non è agevole determinare, perchè aveva un corso nominale vario; ma essendo stata Crema per molti anni soggetta ai duchi di Milano, è verosimile che le monete del Benzone siano state lavorate alla legge di quella città.


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La Repubblica di Venezia, che andava dilatando il suo dominio nella terraferma, addì 16 settembre dell’anno 1449 s’impossessò di Crema, dopo ripetuto assedio diretto dal suo condottiero Sigismondo Malatesta. Da quel giorno, tranne qualche breve intervallo, non cessò più il dominio di Venezia sopra quella città, perchè durò quanto la Repubblica stessa, cioè fino all’anno 1797.

Superata la bufera suscitatale contro della lega di Cambra!, Venezia rientrò nel 1512 in possesso di Crema, rapita per breve tempo dai suoi avversari, e ne affidò il comando a Renzo Ceri, gentiluomo romano di casa Orsini, riputatissimo condottiero, già operoso nel riacquisto di quella città.

Combattuti nell’anno 1513 i possedimenti della Repubblica da nuovi nemici, Crema ebbe a patire per ben quattordici mesi tutte le amarezze ed i sacrifizi che fanno lugubre corteggio alla guerra, e crebbe al sommo la desolazione della forte città, dopochè, stretta d’assedio dalle armi sforzesche, comandate da Prospero Colonna e da Silvio Savello, vide rizzarsi fra le sue mura gli orridi spettri della fame e della pestilenza. Ma una ardimentosa sortita delle genti di Renzo, operata nella notte del 25 agosto 1514, pose fine a tanti mali, e liberò la desolata città.

Non molti giorni prima, avendo quel capitano esaurito ogni altro mezzo di far denaro fece battere moneta di necessità con argenti requisiti. Ecco in qual modo il Fino, seguace del Terni, riferisce il fatto.

" Venuto il mese di agosto, vedendo Renzo che in Crema ci era gran bisogno di denaro, pose mano negli argenti del Monte di Pietà e di Santa Maria della Croce, e cominciò a battere certe monete di valuta di quindici soldi l’una, le quali erano dette Petacchie. Non avevano impronto alcuno, fuorchè una imaginetta di San Marco da un lato. E perchè l’altre monete che correvano per il più erano false, queste per la loro bontà, avevano grandissimo corso per tutta la Lombardia „.

[p. 81 modifica]Piacemi anche riportare il passo relativo della cronaca manoscritta del Terni, che offre qualche interessante dettaglio.

" Absentati i cittadini, Renzo ed il Contareno5 misero mano negli argenti del Monte di Pietà e di S. Maria della Croce, in quelli della gesa dico che per voto erano donati et batterono alcune monete da 15 soldi di Milano l’una, et non con cuneo ma col martello facevano le piastre d’argento, hor quadre, hor tonde, hor di sei, hor di otto cantoni, come per sorte venivano sotto il martello, et da un lato solo sculpevano l’imagine di S. Marco di forma rotonda tanto piccola che non prendeva il quinto della piastra, rimanendo il resto come dall’incudine era lassato, et per rude et poco solemnigiata forma Petacchie erano domandate, et per la loro boutade per tutta la Lombardia ebbono gran corso e questo fu di avosto dell’anno 1514 ed in tanto maggior pregio erano perchè da ogni lato monete false si facevano „.

Malgrado tali particolarità, registrate da uno scrittore che visse contemporaneo al fatto, dubitai lungamente della esistenza di cotale pezzo ossidionale, imperocchè sembravami che Venezia, cotanto gelosa dei propri diritti e sì provvida nelle sue leggi monetarie, male avrebbe tollerato che un Condottiero ed un Rettore di città non molto discosta della metropoli emettessero monete per propria volontà; parevami che se codesta moneta ebbe veramente grande corso per la sua bontà, in copia non indifferente dovesse essere stata fabbricata, e però non difficile dovesse riuscire di scoprirne qualche esemplare. Ma nè il Fino, che visse pochi anni dopo il Terni, ne vide alcuna, nè gli autori a noi più vicini n’ebbero conoscenza, e per quante ricerche io abbia fatto in buon numero di raccolte numismatiche italiane ed estere, mi fu dato poter scoprire tale patacca.

Altra considerazione che rafforzava il mio dubbio era questa, che l’illustre Lazari, così diligente investigatore delle monete della Repubblica Veneta, non ne aveva conoscenza allorchè stampò il trattato delle monete de’ suoi possedimenti, [p. 82 modifica]perchè nel caso contrario non avrebbe al certo tralasciato di dircene alcuna cosa nel capitolo dedicato a quelle della Terraferma Veneta. Ma non quietato ancora per tanti contrari argomenti pensai, l’illustre scienziato ne avesse forse posteriormente raccolta qualche notizia ed affidatala alle pagine, nelle quali registrava diligentemente i frutti dei suoi studi sulle monete d’Italia. Il nobilissimo signor Conte Nicolò Papadopoli, attuale possessore degli studi del Lazari, appena udito il mio desiderio, con quella rara magnanimità che lo distingue si degnò concedermi l’ispezione del foglio dedicato alla zecca di Crema, sul quale, con grata sorpresa vidi un abozzo di disegno della patacca di Crema, una forma ottangolare del diametro di 31 millimetri, con un leone in soldo segnato verso uno dei lati, e dappresso la nota del peso: den. 7, gr. 10 del marco di Milano pari a denari 8,1078. Quel disegno, essendo fatto sopra carta trasparente ed applicato al foglio, dimostra ch’egli l’abbia tolto da altro disegno, come argomento che anche il peso notatovi l’abbia desunto da notizia d’altri, nè abbia mai veduta effettiva la moneta in discorso. Tale indicazione, sebbene vaga, limita di molto i miei dubbi. Ammessa pertanto l’esistenza della patacca di Crema, essa non sarebbe molto dissimile dai testoni ossidionali battuti in Pavia nell’anno 1524, e da quelli fabbricati in circostanze analoghe in Cremona nell’anno 1526.

Il chiarissimo signore, cavaliere Carlo Morbio, che arricchì la Rivista della numismatica antica e moderna con un frammento di opera sua sulle monete franco-italiche ossidionali, ebbe cura di registrare una serie di monografie numismatiche che va dettando, fra le quali sarebbevene una dedicata a monete ossidionali di Crema e di Sabbioneta. In quanto a Crema giudico che possa appunto trattarsi della patacca dell’anno 1514, e s’è così, permettomi di eccitare istantemente quell’illustre di tenere al più presto la promessa, a soddisfazione dei cultori della patria numismatica.




Note

  1. La Miscellanea numismatica, divisa in cinque capitoli, fu pubblicata nel 1867 in opuscolo separato a Venezia coi tipi della Tipografia del Commercio.
  2. Racchetti, Annotazioni al libro III della Storia d’Alemanio Fino. Tomo I, pag. 175.
  3. Sforza-Benvenuti, Storia di Crema. Tomo I, pag. 205.
  4. L’industria dei falsificatori di monete, di queste arpie che inzozzano il banchetto di una scienza cotanto attraente, fiorisce ancora sempre, e particolarmente sì numerose sono le contraffazioni di monete venete e di quelle dei Patriarchi d’Aquileja, ben note a tutti gli onesti raccoglitori di esse, come ne è nota la provenienza. Per lungo tempo ebbero desse corso sotto il patrocinio di qualche sedicente cultore scienziato della numismatica e molte di esse fecero brutta mostra di sé in cospicui medaglieri. Alcune sono imitazioni di monete esistenti, altre prette invenzioni. Resi avvertiti i raccoglitori per molti disinganni subiti, stanno ora più sulle difese, ma non per questo cessò la frodolenta industria, che anzi assottigliò l’ingegno e destreggiò la mano a nuove e più raffinate creazioni, ed avendo veduto che i coni adulterini facilmente venivano smascherati, si rivolse di preferenza all’alterazione delle leggende, mediante la quale monete comuni assumono le apparenze di rarissime. Delle falsificazioni venete ed aquilejesi farò apposito ragionamento in altra occasione, per ora basti questo cenno quale un primo avvertimento a chi spetta. Che se la frode non si rintanerà, ma vorrà persistere a suscitare l’indegnazione dei galantuomini, non mi periterò di essere più esplicito. Intanto, onde questo primo ricordo non resti privo di qualche pratica utilità pei troppo fidenti raccoglitori, segnalerò le seguenti contraffazioni di monete d’altre zecche d’Italia, prodotti quasi tutti della stessa ditta.
         1. Quattrino di Pier Luigi Farnese; quale marchese di Novara, simile a quello riportato dall’Anonimo (Pedrusi?), autore delle lettere sopra le zecche di Castro e di Novara, nella Raccolta del Zanetti, Tomo V, tav. XVII, n. 7.
         2. Soldo di Loterio Rusca, signore di Como; simile a quello pubblicato da Friendländer: Numismata medii aevi inedita. Tav. I, n. i.
         3. Piccolo di Treviso; del conte di Gorizia Enrico II.
         4. Grosso aquilino di Parma; quale vedesi nel Trattato delle monete Parmigiane dell’Affò, nel Tomo V dello Zanetti, tav. I, n. 13. L’esemplare ch’ebbero sott’occhio l’Affò ed il Zanetti, sciupato in parte non permise ad essi di dargli quella più precisa attribuzione ch’ebbe dall’illustre signor Comm. Lopez, il quale, colla massima probabilità, affermalo battuto nell’anno 1341, allorché Parma festeggiò la sua liberazione dalla tirannia di Mastino della Scala, per opera dei Signori Correggeschi. Ed infatti, lo scudetto che vedesi al rovescio dopo i tre punti, nei rarissimi esemplari di tale moneta, apparisce caricato di una fascia, ch’è appunto l’arme dei signori da Correggio. Nella contraffazione in discorso vedesi invece, al luogo di quella armetta, una bella scala a pinoli, supina!
         5. Grosso di Cortona, analogo a quello recato dal Muratori, imitante i grossi di Siena della prima epoca, che forse non esiste nemmeno autentico, se, come parmi, ad esso si riferisce quanto scrive lo Zanetti nel Tomo IV, pag. 521. Il falsatore, prendendo norma dal disegno del Muratori, aggiunse al suo conio una crocetta fra due stellette, al principio delle leggende, da ciascun lato.
         6. Denaro piccolo di Massa di Maremma, consimile a quello fatto conoscere dall’ill. sig. Comm. Promis nella Rivista di Numismatica.
         7. Zecchino di Piombino del principe Gian Battista Ludovisi.
         8. Bolognino d’Orvieto, col nome di Papa Martino V, che sembra inventato di pianta.
         9. Quattrino di Astorgio Manfredi signore di Faenza, fatto dietro il disegno datoci dal Zanetti. Tomo II, tav. VII, n. 1, facilmente conoscibile da ciò, che, invece di favent d’, ha favenie.
         10. Bolognino di Tagliacozzo, d’infelice esecuzione e di peso eccedente.
  5. Bartolomeo Contarini, che fu Rettore dal 20 gennaio 1513 al 6 novembre 1515.