Atto primo

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Prologo Atto secondo


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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA.

Uranio, e Tirsi Pastori.


Ura.
C
Hiaro Sol quando mai

Uscirai tu da l’umido tuo letto,
Che misero, e dolente al tuo ritorno
Non mi ritrovi, come al tuo partire
Mi lasci?
Congiurati al mio mal, quando mai furo
Tante miserie in un sol petto accolte?
Tir.Chi consente al suo mal, come tu fai,
Sol di se stesso, e non d’altrui si doglia:
Tu sei cagione Uranio del tuo danno,
E del continuo affanno;
Tu folle, tu sol vuoi,
Finir miseramente i giorni tuoi.
Ura.Si come non elessi
D’amar chi m’odia, così ancor non posso
Lasciar di seguir quella,
Che ingrata ogn’hor mi fugge,
E fuggendo mi strugge,
Troppo è felice quel Pastor, che puote
Amare, e non amar quand’egli vuole.
Tir.Il voler nostro è come quel liquore,
Che porge vita à una fiammella accesa;

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Che s’egli manca, è forza, ancor, che manchi
La fiamma, hor se tu vuoi, che ’l tuo gran foco
Finisca, non gli dar più nutrimento.
Ura.Come può ’l voler mio voler mai questo?
Tir.Libero è il voler nostro, e può volere
Pur, mal grado d’Amor, quel ch’egli vuole,
Ura.E vero Tirsi, e lo confesso anch’io,
Che ’l voler nostro è libero; ma quando
Amor ne’ cori nostri,
Con mille, e più radici
Abbarbicato vive,
Egli tanto ci oprime,
Che la ragione in noi
Debole è sì, che quasi nulla puote;
E tanto il crudo lusinghier ci alletta,
Che lieti ne i martiri, ne le pene
Viviamo, & in che modo
Liberarci possiam, mal conosciamo.
Tir.Fuggi, che co’l fuggir si vince Amore.
Ura.E dove fuggirò? nel Cielo forse?
Egli nel Cielo alberga, e fa tremare
Giove tonante, e gli altri eterni Dei:
Ne l’Aria forse? egli ne l’Aria à volo
Si leva, con la face
Ardente infiamma i semplici augelletti,
Forse dirai, che in qualche opaca selva
Di ricovrarmi io tenti:
Non sai, che non è selva
Cotanto horida, e folta,

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Ch’egli non la penetri
Col suo vivace foco? e che sia vero,
Le crude Tigri Hircane,
I Leoni superbi di Nemea,
E di Lernea le velenose Serpi,
E quante fiere scorron per li boschi
Chiara ne fanno, e indubitata fede,
Venendo per Amor spesso a contesa:
Nel profondo Ocean fuggirò forse?
Ahime, che i Pesci, ancor che sien ne l’acque,
Schermo non ponno haver dal suo gran foco,
Altro dir non mi puoi Tirsi mio caro,
Se non, ch’io vada tra i dannati spiriti.
Ahi, che nè quivi ancor troverei scampo
Contra ’l Fanciul, che tutto il mondo vince,
Poi che l’istesso Re de i laghi Averni
Ardendo per Proserpina ci mostra,
Che nel suo Regno ancor non può fuggirsi
D’Amor l’alta possanza, e qual più certo
Segno si puote haver de la sua forza,
Se perdonar non volse
A la sua Genetrice, & à se stesso?
Dunque ben creder puoi, che in van si tenta
Fuggir da la sua mano,
Poi che non solo in Cielo, in Terra, e in Mare
Mostra immenso il potere;
Ma co’l suo gran valore
Questo Nume invincibile, e tremendo,
L’Inferno ancor mirabilmente sforza,

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Tir.Voi sciocchi amanti, voi
Lo figurate un Dio,
Per haver degna scusa al fallir vostro.
Non sai tu, che gli Dei, misero, e stolto,
Governan giustamente il tutto; & egli
Regge il suo Regno sempre ingiustamente?
Amore altro non è, che un furor cieco,
Un ben dannoso, un mal sicuro appoggio,
Tiranno ingiusto al fin de’ vostri cori:
Il ben, ch’egli v’addita è finto, e ’l male
Pur troppo vero; e s’egli pur tal volta
Promette qualche ben, tosto vi toglie
La speme di fruirlo: onde maggiore
Si fa la doglia, e più cresce l’affanno.
Questi sono i piacer, questi i contenti,
Che voi provate amando,
Per un lieve piacere,
Mille gravi tormenti,
E per poca dolcezza molto amaro;
Nè mai provate un bene,
Senza tormenti, e pene:
Onde ben posso dir, ch’ogni piacere,
Ch’Amor vi fà gustare, altro non sia,
Che diletto fugace, e dolor fermo,
Dubbio ben, certo male,
Honor celato, e dishonor palese
Fede perfida, e frale,
Sollecito furor, tenace, e saldo,
Pigra ragion, senso veloce, e presto,

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Incertissima gioia,
E certissima noia.
Ura.Cieca, cieca è la mente di color,
Che dicono, che Amore
Non è possente Nume;
S’egli non fusse, che mai potrebbe
Tener un senza cor molt’anni in vita,
E farlo in se morire,
E vivere in altrui?
Esser più dove egli ama, che ’n quel loco,
Dove dimora? e finalmente quale
Maggior certezza haver si puote mai
De la sua Deità, che per servirlo
Non curiam di noi stessi?
Tir.O misera Farfalla,
Tu ti raggiri a la tua fiamma intorno:
E vuoi con biasmo, e danno,
Finir la vita tua; e pur potresti
Far lieti i giorni tuoi,
Con l’ubidirmi abandonando Amore;
Ma se t’aggrada pur l’essere amante,
Ama la vaga Filli,
Che per te (lassa more) more;
E lascia di seguire,
(Se vuoi pur ch’io ti chiami accorto, e saggio)
Ardelia, che ti fugge, e fugge ogn’altro.
Ura.Per certo vò più tosto
Per Ardelia morire,
Che per altra gioire,

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Che sia di lei men bella.
Non sai Tirsi, non sai,
Ch’Ardelia, ch’ogn’hor m’arde, è così bella,
Che di stupore, e meraviglia pieno
Lascia colui, che fisa in lei lo sguardo?
Ella hà le chiome sue sì bionde, e terse,
Ch’invidia fanno al solar raggio, e scorno;
La fronte è di ligustri;
E di rose le guancie, e di corallo
Le labra amate; di bianchezza i gigli
Vincon gli eguali, e ben composti denti;
D’ebano l’inarcate, e giuste ciglia;
Gl’occhi sì chiari, e lucidi, che ’l Sole
Vincon d’assai; il collo tondo, e bianco,
Che seco il latte perde; il seno è fatto
Di schietto avorio con due poma acerbe,
Che tremolar si veggon sotto un velo,
A lo spirar di quella dolce bocca,
Al cui soave fiato
D’odor cedano i venti
Che da l’Arabia vengono:
E tra le due vallette, ove confina
La bella bocca, ancor che sien di neve,
Si stà con l’esca, e col focile Amore
Ivi inascosto al varco,
Hor questo core, hor quello
Dolcemente infiammando:
Lunghe, e rotonde son le belle braccia,
Lunga la bianca mano,

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Il corpo schietto, e di misura honesta;
La gamba dritta, e snella,
Il piè picciolo, e svelto:
Ma che dirò de’ guardi? iquali quanto
Più parchi sono, con maggior possanza
Accendon l’alme di cocente ardore:
Le parole son poi sì accorte, e sagge,
Che sentir non si possono, che ’l core
Preso non resti, e vinto:
Ma dove lascio il riso,
Che qualhor si dimostra
Tra rosate labra
Mi fa vedere in terra il Paradiso?
Onde giudico Ardelia,
Piena sì de beltade;
Ma priva di pietade.
Tir.Voi miserelli amanti giudicate
Non già secondo il vero, ma secondo
Il cieco affetto, ch’a servir v’induce
Crudele, e falsa Ninfa.
Ma poi, che sì cortese
T’hò ritrovato nel farmi sapere
De la tua Ninfa le molte bellezze,
Deh fammi anco palese,
Quando di lei t’innamorasti, e come
Restasti preso à l’amoroso laccio.
Ura.Negar non ti saprei così giusta;
Allhor che noi Pastori,
Nel bel fiorito Aprile,

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Coroniamo le mandre
Di verdeggianti rami,
Ponendo sù la porta una corona
Di fiori, e frondi riccamente adorna;
E che ciascun l’armento, e la sua greggia
Parimenti corona di bei fiori;
E con fumo di puro zolfo gira
D’intorno a gli animal,
Per levar loro ogni possibil male:
E che i gioghi, e gli aratri,
I vomeri, le zappe, e i rastri ancora
D’odoriferi fior tutti adorniamo,
Allhor che le capane,
Con le sonore canne
Facciamo risonare; allhor che tutti
Gli animali si mostrano contenti,
Non che i saggi Pastori,
Per la solennità di sì gran festa,
Festa sacrata ogn’anno
A Pale nostra Dea;
Allhor dico fui fatto
Preda, lasso d’Amore;
E questo fù nel gire al sacro Tempio,
Dove raccolti fummo
Da venerando, e vecchio Sacerdote,
Di bianca veste adorno,
E di verde ghirlanda coronato,
Il qual con lieto viso,
Con puro, e santo zelo

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All’Oriente volto,
Una candida Agnella
Uccise, e le sue calde interiora
Nel foco ch’ivi ardendo,
Portava con la fiamma al Ciel gli odori,
Che ’l ricco Arabo suole
Raccorda i fortunati arbor Sabei,
Gettò, chinando a terra
Le ginocchia pietose, e riverenti;
Poi volti gli occhi al Cielo,
Chiese per noi perdono a l’alma Pale,
Se per disaventura, ò per follia,
O noi, o ’l nostro Armento
Turbato havesse, ò prato, ò fonte, ò bosco
A lei sacrato, e con l’istessa voce,
Chiese per gratia, e dono,
Che fascino, baleno,
Arte maga, invid’occhio
Turbar mai non potesse
Nostra lanosa greggia, e nostro Armento:
E con pietoso accento
Pregò, che custodisse i nostri cani,
Di lor fidata scorta; acciò di latte,
Di lana, e bella prole
Abondassero sempre; nè giamai
A la capanna alcun di noi tornasse
Piangendo, e sospirando,
Con la sanguigna pelle
Di pecora, e di capra, ò di giovenco,

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Tolta a pena di bocca al lupo ingordo:
Ma fusse il numer suo tanto al ritorno
La sera a i nostri alberghi,
Quanto al parti ne lo spuntar del giorno,
Finito questo, fuor del sacro tempio
Uscimmo, dove in bella schiera accolte
Molte Ninfe vedemmo in un bel prato,
Le quai di passo, in passo
Gian vaghi fior cogliendo.
Tra queste Ardelia vidi,
Ahi lasso, e posso dire,
Che in un punto la vidi, e in un punt’arsi:
E quel, che più m’accese
Di lei, fu ch’io sentij, ch’ella si dolse
Con le compagne sue
Del crudo fin de l’innocente agnella
Che quel giorno immolossi,
E dissi allhor tra me: s’ella sì duole
D’un animal, che per honor di Pale
In sacrificio s’offre,
Che farà poi vedendo
Un’huom, che per lei muora?
Certo diss’io così cortese, come
Bella la troverò; & ella allhora
Quei bei soli affissando
Ne’ cupidi occhi miei,
E lampeggiando un dolce riso parve,
Parve, che ’l tutto confermar volesse,
Ond’io da questo mosso,

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E da quella beltà, che non ha pare,
La mi posi ad amare:
Ed è passato il Sol già quattro volte
Per i dodici alberghi,
Dal dì, ch’ella mi accese,
E ’n dolci nodi strinse,
Con le dorate chiome,
Questo per lei piegato, & arso core
Hor hai sentito à pieno
L’historia del mio male.
Nè soverchio m’è parso il raccontarti
Quella solennità, che allhor si feo.
Ch’io dolente d’Amor vittima fui,
Sapendo come tu sei giorni innanzi,
Nel saltar d’un gran fosso ne cadesti,
Percotendo d’un piede in una pietra;
E fù sì grande la percossa tua,
Che molti giorni poi
Ne rimanesti infermo;
Eccoti detto à pieno
Quello, che non vedesti.
Tir.M’è stato caro certo
L’udir quel, che non vidi; e dal tuo dire
Hò chiaramente conosciuto, come
In un bel modo in vero
Amor t’attese al varco,
E in più bel modo poi,
Di libero ti fè divenir servo.
Ma temo, che, sì come t’accendesti

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Ne la stagion, che solo i fior produce,
Così sol fiori havrai
Del tuo lungo servire.
Ura.Deh se tra tanti fiori
Potessi haver quel fior, che tanto bramo,
Mi chiamerei felice;
Ma sì gran ben non lice
Forse sperare ad un Pastor sì misero.
Tir.Sì dolce Uranio parli,
Ch’io non mi sono avvisto,
Che mentre odo il tuo dire,
E pur teco ragiono
D’Amor, vorace tarlo
Del tuo misero core,
Vanno fuggendo l’hore, & io non vado
A i soliti piaceri:
Dunque mi parto; à Dio, rimanti lieto.
Ura. Voglio teco venire, aspetta Tirsi,
Chi sà forse potrei teco venendo
Vederla non men cruda
Che bella Ardelia mia.



SCENA SECONDA.

Fillide Ninfa.


M
Entre tal’hora fra me stessa penso

Al mio stato già lieto al par d’ogni altro,
Et hora più d’ogn’altro

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D’affanno pieno, e di noiose cure,
Dolor m’affligge, & ange,
E la disperation m’induce (ahi lassa)
A desiar la morte.
O più d’ogn’altra sfortunata Filli,
Voi pur sapete, o boschi,
Valli, selve, e campagne,
Qual sia la vita mia, poi che sì spesso
Mi sentite lagnare, e i venti ancora
Lo san, che per udir l’aspra mia pena,
Si fermano sovente:
Io sfortunata allhora, che le stelle
Fanno ornamento al bel notturno Cielo;
E che Cinthia si posa nelle braccia
Dell’amato garzone; e che la notte
Spiega l’oscuro velo;
E che ’l Sonno, e ’l Silentio
Porge a i mortali stanchi
I dovuti riposi; io me ’n vo sola
Senza temer delle notturne larve
L’horrido incontro, e misera, o perduta
Per gli ermi boschi, e pe i solinghi campi,
Indarno Uranio chiamo, e mentre chieggio
Al Ciel s’ei mi sarà spietato sempre:
Da i cavi sassi accresce il mio tormento
Ecco, ch’al mio parlar risponde SEMPRE.
Così turbo à la notte in gravi homei
Il sui fido silentio; mentre piango
Sento i notturni augelli, che stridendo

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M’apportan segno di futuro male;
E vivendo in tal morte, ecco le stelle
Veggio sparire ad una ad una, e sola
Restar nel Cielo l’amorosa stella;
Laqual, mentre da me tardi si parte,
Humilmente prego, ch’al mio male
Qualche termine ponga, se non ch’io
Diverrò di me stessa acerba Parca.
E mentre così parlo, ella se ’n fugge,
Sprezzando i preghi miei; in tanto sorge
Dal Mar la vaga Aurora,
Cinta di rose il rugiadoso crine,
E quando il Ciel di più bei fior dipinge,
E più le cose allegra,
Tanto al mio tristo core
La fiera doglia accresce;
Perche mi par, che quanto
Hà di dolore il mondo
Tutto in quest’alma misera s’annidi,
Così le notti, e così i giorni interi
Consumo in doglia, e in pianto
Già le fronzute selve,
E ’l garrir de gli augelli,
Il mormorar de’ fonti,
E ’l dolce susurrar de i lievi venti
Tra il verde crin de i Mirti, e de gli Allori,
E ’l grato odore, e caro
Del fiorito terreno
N’apportavano al cor somma dolcezza,

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Ov’hor nulla mi giova;
Poi che per lunga esperienza (ahi lassa)
Hò conosciuto, o dispietato Uranio,
Che del mio mal ti godi, e ti nutrisci,
E brami pur ch’io muora; e più ti piace
La morte mia, che gli Olmi
A le ritorte viti;
E tu sai pur crudele,
Che non amano tanto la rugiada
Le mattutine rose, quanto Filli
Ama Uranio crudele.
Dunque verseram sempre amaro pianto,
Gli occhi miei lassi, e la dolente bocca
Trarrà dal mesto cor sospiri ardenti,
Fin, ch’io misera giunga a l’ultim’hora.



SCENA TERZA.

Igilio Pastore, e Fillide Ninfa.


Igi.
N
E più bel raggio mai d’occhi sereni,

Nè più candida man, nè più bel crine
Arse, avvinse, e piagò libero core,
Di quello, ond’io restai,
Per te dolce mia Filli,
Arso, avvinto e piagato;
Filli di te cosa più bella mai
Non potea nel suo regno Amor mostrarmi;
E chi brama vedere

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D’Amor la face, l’arco, e le saette,
E Venere, e le Gratie, e finalmente
Tutto ’l bel di natura insieme unito;
La bocca dolce, e ’l bel sereno sguardo
Di te mia Filli miri;
E viva poi, se può senza sospiri.
Invidio l’herbe, i sassi, i fior, le frondi,
Che son tocche da lei, & ogn’hor bramo
Cangiarmi in fior, non sol per adornare
Di lei le treccie, o ’l delicato seno:
Ma per pigliar da lei gratia, & odore:
Oh s’io fussi herba, o fosso, che dal suo
Candido piè toccato fussi un giorno,
Vincerei di letitia ogn’altro amante.
E, se fronde venissi,
Che per suo scherzo, e gioco,
Dalla morbida man toccato fussi,
Sarei felice, e fortunato à pieno.
Deh s’io potessi in pianta trasformarmi,
Frondosa sì, ch’ella sprezzando ogn’altra,
Venisse à l’ombra mia per riposarsi,
Io non invidierei
Quel Platano famoso,
Che fece ombra ad Europa, & al gran Giove.
Oh s’io potessi un fonte divenire,
Non perdendo per questo il senso humano,
E che tu Filli mia
Venissi à rinfrescar le belle membra
Ne l’onde mie, la fonte, che Diana

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Vede sovente ignuda, non potrebbe
Agguagliarsi di gioia
Al mio felice stato.
Ma, s’io non posso in fiore, in herba, in sasso,
In fronde, in prima, ò in fronte trasformarmi,
Potess’io almen cangiarmi in una fiera,
In una fiera, che da te seguita
Fusse per mia ventura,
Che se cosa vietata accresce sempre
Il desiderio in noi,
Vorrei da te fuggire,
Sol per indurre in te desio maggiore,
Di seguitarmi, e tormi al fin la vita;
E ben sarei felice,
Se quella bianca, e delicata mano
Del mio viver mortal troncasse il filo.
Fill. O dispietato Amore, ecco colui,
Che per tua colpa m’ama;
Et io per tua cagione, ohime, non posso
Renderli il cambio di cotanta fede:
E per maggior mia doglia mi conviene
Amar, chi m’odio, e servir, chi non prezza
Il mio fido servitore, e l’amor mio.
Igi.O me felice, hor ecco,
Che senza trasformarmi in altra forma,
Veggio l’amata Filli,
Ecco la bella fiamma, che mi sface;
Voglio accostarmi, e dire;
Pietade al mio languire.

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Fill.Io voglio qui fermarmi, perch’io veggio,
Ch’egli arde di desio di parlar meco;
E vò mostrare a lui quella pietade
Del suo mal, ch’io vorrei,
Ch’altri mostrasse a me del mio dolore;
E bene imparo, ahi lassa, a le mie spese,
A mostrarmi cortese.
Igi.Gentilissima Filli,
Pietà di me tuo sfortunato servo.
Fill.Se da l’opere nostre
Si può vedere il core,
Credo, che tu conosca Igilio, quanto
Mi spiaccia, e mi rincresca non poterti
Dare del tuo servir giusta mercede;
Ma non posso dispor di quelle cose,
Che per colpa d’Amor non son più mie.
Io d’altrui sono, e non posso esser tua.
Che mia nè anco sono.
Igi. Com’esser può, ch’essendo Amor commune,
Non sia commune ancor quel desiderio,
Ch’egli con la sua face accende in noi?
Et è pur vero, e con mio mal lo provo:
O dolce albergo d’ogni mio pensiero,
Fa forza a te medesma, e mi concedi
Parte della tua gratia, acciò che Amore
Non vada altero della grave pena,
Ch’ogn’un di noi sostiene: habbi a memoria,
Che d’ogni cosa è copioso il mondo,
Fuor che di puri, e non infiniti amanti;

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E poi che in me conosci tanta fede,
Quant’è bellezza in te, non voler, ch’io
Mieta dell’Amor mio sì tristo frutto.
Fill.Teco doler mi posso del tuo male;
Ma già non posso, come ben vorrei,
Darti cortese aita; o fiera sorte,
Soccorrer ti vorrei, ne sò in qual modo.
Igi. Vedi, s’è grande la miseria mia,
Leggiadra Filli, ch’io
Sento maggior dolore,
Per vederti pietosa del mio male,
Che non farei, se tu crudel mi fussi,
Cessa dunque cor mio,
D’esser pietosa in così fiera guisa.
Fill.Non ti dispiaccia Igilio, ch’io ti mostri
L’affetto del mio cor, e a grado prendi,
Ch’io dolor senta, non potendo amarti;
Nè voler più da me di quel, ch’io posso.
Igi.Gratie ti rendo del cortese affetto;
Ma poi, che da sì chiara, & alma luce,
Onde vorrebbe uscir la vita, n’esce
La morte, posso ben misero dire,
Che per me la pietà fatta è crudele:
Ma non potrà mai far maligna sorte,
Ch’al par della mia vita ogn’hor non t’ami.
Fill.Et io voglio pregarti,
Che non t’incresca, s’io
Non posso darti il premio
Di quell’amor, che di portarmi affermi;

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Riconsigliati dunque, o caro amico,
E come saggio, rimedia al tuo male.
Io, se piacesse al Ciel di farmi libera,
Ben ti farei conoscere,
Che, sì come ne l’uno ti consiglio,
Ne l’altro lietta ti sodisfarei:
Ma non posso star teco
Più lungamente Igilio,
Poi che quest’occhi miei chiedono il loro
Soave cibo, e dolce nutrimento.
Mi parto dunque, per veder s’Amore
Vuol essere sì pietoso al mio desire,
Com’egli è stato al tuo, rimanti in pace
Vò per veder, s’io posso
Parlar, sì come ho molte volte fatto,
Co’l mio crudel Uranio;
Ma prego la mia sorte,
Che conceda gratia di trovarlo,
Diverso da l’antico suo costume.
Igi.Va pur Filli, cor mio, va dove vuoi:
Io prego Amore, e ’l Cielo,
Che si mostri propitio à tuoi desiri;
Misero Igilio, in che fortuna sei?
Bramerai tu, che Filli
Trovi de’ suoi martir pietoso Uranio?
Ahi, se mentre ch’ei l’odia, e ch’ei la fugge
Ella lo segue, & ama, che fia poi
Se gl’avverrà, ch’ei non la fugga, e l’ami?
Qual parte rimarrà del cor di Filli,

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Ch’esser possa d’Igilio? ohime, ch’io temo,
Che, s’ei s’affissa un dì nè suoi bei lumi,
E le soavi sue parole ascolta,
Ei non divenga amante; allhora Igilio
Sarai fuor d’ogni speme, allhor vedrai
Nell’altrui sen la tua leggiadra Ninfa,
Ah, non mi serbi il Cielo
A sì noiosa vista;
Prima con le sue man questi occhi chiuda
Morte, ch’io veggia mai
Quello, a cui sol pensando,
Sento farsi di ghiaccio
Il cor nel petto, e ’l sangue entro le vene:
Ma quel cieco Fanciul, cui tanto aggrada
Il discorde voler, che in due cor mira,
Forse farà, che Uranio
Arda per altra Ninfa, e sprezzi Filli;
Ond’io non rimarrò di speme privo.


Fine del Primo Atto.