Merope (D'Annunzio)/La canzone del sangue

La canzone del sangue

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LA CANZONE
DEL SANGUE

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I
N Cristo re, o Genova, t’invoco.

Avvampi. Odo il tuo Cìntraco1, nel caldo
3vento, gridarti che tu guardi il fuoco.

Non Spinola né Fiesco né Grimaldo
trae con la stipa. Il sangue del Signore
6bulica nella tazza di smeraldo.

S’invermiglia a miracolo d’ardore
il tuo bel San Lorenzo, come quando
9tornò di Cesarèa l’espugnatore.

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Tornò Guglielmo Embrìaco recando
ai consoli giurati, in sul cuscino,
12tra la sesta e il bastone di comando,

tra la coltella e il regolo, il catino
ove Giuseppe e Nicodemo accolto
15aveano il sangue dell’Amor divino2.

Era desso, l’Embrìaco, figliuolto,
quei che fece al Buglione il battifredo
18onde il vóto santissimo fu sciolto3.

Con le mani che diedero a Goffredo
la scala invitta, sopra il popol misto
21levò la tazza. E il popol disse: “Credo.„

E ribolliva il sangue ad ogni acquisto
di Terrasanta; e n’eri tutta rossa,
24il popolo gridando: “Cristo, Cristo!

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Cristo ne preste grazia, che si possa
andar di bene in meglio„. E la Compagna
27incastellava cocca e galèa grossa.

Così tu veleggiasti alla seccagna
di Tripoli, con uno de’ tuoi Doria
30buon predatore, o Genova grifagna;

ché padroni e nocchieri di Portoria
e di Prè, stanchi d’oziare a bordo,
33tentarono l’impresa per galloria4.

Ed era un vile tirannello ingordo
quivi, nato d’un fabbro saracino;
36e l’ebbero per palio in sul bigordo.

Ogni roba condussero a bottino,
ogni uom prigione. E pieno di tesoro
39fu l’ammiraglio quanto il pilotino.

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La terra spoglia come piacque a loro
poi la vollero vendere a vergogna,
42per cinquanta e più milia doble d’oro.

Poi cattarono altrove altra bisogna;
e stettero tre mesi in su la guerra
45per le marine della Catalogna.

O Genova, ma non l’istessa terra
presa dalle tue quindici galere
48è quella ch’oggi il nostro acciaro serra;

né di preda in pecunia ed in avere
sottile, se il sangiacco dà la volta
51come l’altro, sarem noi per godere;

né, quando bene glie l’avrem ritolta,
a quetare i tribuni dell’Erario
54la venderemo noi un’altra volta.

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Odimi, pel sepolcro solitario
del tuo Lamba colcato in San Matteo
57lungi al figlio che s’ebbe altro sudario5;

pel fonte del tuo picciol Battisteo
donde al mare t’escì la grande schiatta
60sperta di mille vie come Odiseo,

di mille astuzie aguta, assuefatta
ai mali, contra i rischi pronta, a scotta
63tesa, a voga arrancata, a spada tratta,

improba e col gabbano e con la cotta,
usa il giaco fasciar di mal entragno
66come di cuoia crude la barbotta,

indomita a periglio ed a guadagno,
or tutt’ala di remi al folle volo,
69or piantata nel sodo col calcagno;

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odimi, Mercatante, dal tuo molo,
Guerriera, dal naval tuo sepolcreto,
72Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo,

per l’ombra di quel semplice Assereto6
che, distolto da rògito o caparra
75e posto sopra il cassero, l’abeto

trattò meglio che il calamo, la barra
di battaglia assai meglio che il sigillo,
78contra il fior d’Aragona e di Navarra,

vincitore di re su mar tranquillo,
con gli infanti coi duchi e coi gran mastri
81aggiugnendo al trionfo un codicillo;

odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli astri
d’un’altra state, tutti i tuoi rosai
84aulendo ne’ tuoi chini orti salmastri,

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tal si partì coi rossi marinai,
con l’Amore e la Morte, del fraterno
87stuolo facendo un spirito, e giammai

volse il bel capo verso il lido eterno,
dubitoso di perdere Euridice
90che dietro sé traeva dall’Inferno;

se t’ebbe inconsapevole nutrice
l’esule smorto, tutto fronte e sguardo,
93il fuoruscito senza Beatrice,

quegli che nel crepuscolo infingardo
eresse il suo dolore come un rogo,
96il suo pensiero come uno stendardo,

e nella carne stracca sotto il giogo
il soffio ansò di quella terza vita
99ch’or freme ferve splende in ogni luogo,

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con te sì presso all’opera fornita
è quel dèmone vindice che forma
102il suo mondo nell’anima infinita.

Ben a tal piaggia, ove non è che l’orma
dell’Immortale, o Madre delle Navi,
105ieri approdò la nostra prima torma.

Non all’antica terra che forzavi
con la balestra e col montone, dura
108in mettere a bottino, in trarre schiavi;

ma alla terra che chiamano futura
i messaggeri, alla terra dei figli,
111alla terra dell’Aquila futura.

Come di tra i riversi orli vermigli
delle pàlpebre gli occhi del piloto
114s’aguzzavano sotto i sopraccigli!

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Ché divinava egli per entro al vòto
gorgo dell’aria un che di virginale
117e di sublime, quasi monte ignoto,

simile al nudo culmine ove sale
lo spirito, ov’edifica imminente
120lo spirito la grande arce spirtale.

E chiuse, per veder profondamente,
e chiuse egli le pàlpebre infiammate
123su le pupille insonni; e fu veggente.

Per ciò, serva del Ciel, per ciò, primate
del Mare santo, la Reliquia vedo
126ardere ed arrossar le tue navate.

Con le mani che diedero a Goffredo
la scala invitta, il rude espugnatore
129levò la tazza. E il popol disse: “Credo.„

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O parola novissima d’amore,
trascorri in nembo tutto l’Apennino
132e fa crosciar le selve al tuo clangore!

Ecco il vaso di vita, ecco il catino
ove Gesù nel vespero pasquale
135ai Dodici versò l’ultimo vino,

e lor disse: “Quest’è il mio sangue; il quale
è il sangue del novel patto, ed è sparso
138per molti.„ E s’indiava sopra il male.

Quando clamò “Eloi!„ dal cor riarso,
nell’ora nona, un uom d’Arimatea
141venne; e in quel vaso accolse il sangue sparso.

Quindi per alta grazia un’assemblea
di Puri s’ebbe lo smeraldo sculto
144in custodia; e di loro il mondo ardea.

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Pari l’ebrezza del convito occulto
era ad una immortalità precoce,
147ed il trapasso era un divino indulto.

L’anima era visibile; la croce
era senz’ombra; il pianto era rugiada;
150il silenzio era un inno senza voce.

L’avversario era in capo d’ogni strada;
la battaglia era un serto di faville;
153la giustizia era l’occhio della spada.

Il futuro era un carme di sibille
come di tessitrici glorianti;
156e la gloria era d’uno contro mille.

O Mistero del Sangue! I duomi santi
crollarono in un vespero, i templari
159furon sepolti sotto i marmi infranti.

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E un’orda venne, che coi limitari
divelti, col rottame dei lavacri
162perfetti, con le mense degli altari,

con le schegge dei grandi simulacri
costrusse le sue case. Ed il porcile
165era murato di frammenti sacri.

Ma i bianchi Astori lungi all’orda vile
avean rapito il segno del reame.
168Odimi tu, latin sangue gentile!

Odimi; ché di te sotto il velame
io dico, e del miracolo repente
171onde un spirito fai di tanto ossame.

Quale improvviso nella notte ardente
di Cesarèa l’Embrìaco la tazza
174di salute rinvenne alla sua gente

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e, quella pósta su la galeazza
come il palladio fu su la trireme,
177ricelebrò la gloria della razza,

tal forse un genio indìgete del seme
d’Enea ritorna a noi col divin segno
180dallo splendore delle sabbie estreme.

Tra le palme invisibili arde il pegno
del novo patto. Innanzi ch’Ei si sveli,
183giura fede al Signor del novo regno,

Italia, per gli aperti tuoi vangeli,
e per la grande imagine che invoco,
186e per la gesta che t’allarga i cieli!

“Chi stenderà la mano sopra il fuoco?„
grida il Signore ai primi eroi comparsi.
189“Chi stenderà la mano sopra il fuoco

avrà quel fuoco per incoronarsi.„

Note

  1. [p. 196 modifica]Il Cintraco era in Genova repubblicana un banditore del popolo; e su l’anima del popolo giurava in parlamento. Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco.
  2. [p. 196 modifica]Il Catino ottagonale, creduto di smeraldo — che Guglielmo Embriaco recò a Genova dal conquisto di Cesarea (1101) — è, secondo la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l’espugnatore genovese lo rinvenne tra le prede nella città siriaca.
  3. [p. 196 modifica]Guglielmo, soprannominato Caputmallii, aveva il comando della spedizione navale partita dal porto di Genova nell’agosto del 1100. Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore eccellente di torri ossidionali e di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell’aprile del 1101, la vigilia della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa [p. 197 modifica]dopo avere inseguito uno stuolo di quaranta galee d’Egitto, e come da Caifa navigassero a Giaffa accolti festosamente dal re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all'espugnazione di Arsuf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Cesarea trassero il naviglio in secco, istrutti dall’Embriaco armarono macchine murali, poggiarono alle mura le antenne, diedero la scalata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono la ricchissima preda, tornarono in patria con la Reliquia e con la gloria. Già quel medesimo Embriaco, insieme con un Primo suo consanguineo, mentre Gottifrè di Buglione era all’assedio di Gerusalemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste aveva distrutte per non poter far fronte all’armata saracena d’Ascalona, indi aveva trasportato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di percossa e di assalto. Nell’impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell’esercito genovese. S’ebbe Genova la istituzion romana dei Consoli prima d’ogni altra città (1056). Entravano essi in officio il dì di Purificazione. Dipendeva l’Embriaco, nella detta impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la nave o di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contraeva l’obbligo dell’obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intorno al 1100 la Compagna divenne un’associazione stabile e serrò l’intera cittadinanza in potentissimo cemento. Per calendinaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re d’Arborea tenuto per cittadino e vassallo del Comune. [p. 198 modifica]Preziosissimo sempre tenne il Comune nel Tesoro di San Lorenzo il Sacro Catino. Ed è singolare, nella storia delle antiche Compere, quell’assegnazione che fu detta la Compera del Cardinale pel recupero del Sacro Catino (Compera Cardinalis pro recuperatione sacrae Parasidis), originata da un contratto che il 16 ottobre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipulò fra il Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardinale in prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d’oro, contro il pegno della sacra scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune a riscattare la divina Reliquia assegnava al Fieschi luoghi 95 con un provento per ogni luogo e v’aggiungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia.
  4. [p. 198 modifica]L’impresa di Filippo Doria su Tripoli è narrata dall’annalista ligure Giorgio Stella, dal fiorentino Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita perspicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Villani “come i Genovesi appostarono Tripoli, come là presero, come la venderono„ è mirabile di colore e di freschezza.
  5. [p. 198 modifica]Nella giornata di Curzola, Lamba Doria — ch’era per ardere sessantasei galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incendio rosseggiare il suo cielo e i suoi marmi specchianti — afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall’alto della poppa lo scagliò nell’Adriatico gridando: “Compagni, il mio figliuolo è morto ma ei vive in cielo. Non ci contristiamo d’una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il luogo della vittoria.„ Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l’urna [p. 199 modifica]funebre in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta.
  6. [p. 199 modifica]Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d’un’armatella di soccorso contro Alfonso d’Aragona, fu lo stupendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella quale, pur essendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo accorgimento che sconfisse l’armata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d’Aragona, il re di Navarra, il gran mastro di Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte di Fondi e cento tra principi o signori d’Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435). Nella lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria — trascritta dal Federici sul testo conservato presso Marco Antonio Lomellino e publicata dal Belgrano — egli racconta: “Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirandone re lo navi addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carma.