Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XVIII
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CAPITOLO XVIII
Nuovi benefizi da me fatti a’ comici da me protetti e nuovi vantaggi
fatti da me alla Ricci. Tutto nonnulla.
La storia della mia amicizia e del mio comparatico con quella comica, da me narrata con accuratezza ingenua, non può riuscire che di tedio a’ lettori.
Siccome i miei lettori devono esser giudici di alcuni eventi cagionati alla mia dabbenaggine da quella attrice, i quali eventi furono considerati dall’universalitá non informata peripezie di conseguenza, non posso dispensarmi dall’informare minutamente i miei giudici, che devono pronunziare sentenza d’una causa che, dal canto mio, ho sempre considerata argomento da farsa ridicola.
Le mie narrazioni potranno per lo meno avvertire che l’intrinsecarsi con una compagnia di comici anche con disinteresse, anzi sostenendola in virga ferrea, come ho fatto io, non è infine che pericolo ed imprudenza, e che non è da sperare nemmeno la compensazione d’un granello di gratitudine.
Dicendo ciò, non intendo di cadere nella ingiustizia di accusare generalmente tutti i comici e le comiche de’ nostri teatri. Ho trovato in que’ tempi e ne’ tempi posteriori, pochi bensí, ma de’ comici e delle comiche educati, d’ottimi sentimenti, di buon cuore, caritatevoli, servdgievoli e gratissimi.
Alcuni potranno dire che, avendo scoperti nella compagnia del Sacchi tutti i fistoli sopra accennati, prudenza e precauzione volevano ch’io m’allontanassi da tutti i personaggi che la componevano, prevedendo che me ne dovesse avvenire de’ dispiaceri notabili.
I molti anni di pratica allegra ch’io aveva tenuta con quella societá, l’assuefazione radicata, la compiacenza di vedere un buon effetto dell’opere mie donate e rappresentate da quelle persone con abilitá, e del bene che quelle opere cagionavano loro, il puntiglio che aveva concepito contro i persecutori de’ miei protetti, mi tenevano fermo.
Conviene anche concedere qualche indulgenza al mio carattere flemmatico, ostinato nella costanza, addormentato nelle pratiche e nella amicizia e sofferente.
Ho sofferti per un lunghissimo tempo de’ servi viziosi e disattenti, de’ sarti che mi rubarono e mi rovinarono degli abiti, de’ calzolai che mi storpiarono colle scarpe che mi fecero, de’ barbieri che mi scorticarono, de’ parrucchieri che accorciandomi i capelli m’accorciarono un’orecchia colla forbice, e cent’altre persone incomodissime, senza lagnarmi che con de’ scherzi che le fecero ridere.
Quanto alla mia costanza con la Ricci, m’era ridotto a resistere, a frequentare con lei le mie visite e a difenderla omai piú per difender me che per difender lei.
Aveva sostenuta la di lei comica abilitá, combattuto per la sua fama onorata, ed era divenuto di lei compare, titolo che porta con sé qualche debito. Seguo la mia narrazione.
Giunta nuovamente in Venezia nell’ottobre di quell’anno la compagnia comica del Sacchi, e giunte tutte le altre truppe ne’ parecchi teatri di Venezia, quella del Sacchi fu sorpresa da una novitá inaspettata e desolatrice.
La provvida vigilanza de’ magistrati, che anteriormente all’aprirsi de’ teatri spedisce ogn’anno de’ periti architetti ad esaminarli tutti nella loro soliditá per la pubblica sicurezza, aveva avuta riferta da’ periti che il teatro in San Salvatore condotto dal Sacchi era periclitante, e perciò era corso un ordine rispettabile che quel teatro dovesse rimaner chiuso e inoperoso.
La disperazione per parte del patrizio Vendramin, proprietario, e per parte del Sacchi, non meno che di tutta la compagnia, fu grandissima. Trenta e forse piú persone componenti quella truppa, private del pane quotidiano, facevano compassione.
Ad un ricorso del patrizio proprietario, il quale esibiva un pronto ristauro della fabbrica, fu risposto dal magistrato ispettore che facesse pure il ristauro, e che trovato solido dal pubblico esame, averebbe licenza di aprire il di lui teatro.
Durante questo ristauro frettoloso, che dové durare ventidue giorni con la perdita di ventidue recite e ventidue ricolte, il Sacchi co’ sozi suoi, quantunque le scritture de’ stipendiati eccettuassero la corrisponsione degli onorari in un fatto di Principe, seguí liberalmente a pagare a’ stipendiati tutti gl’interi loro mensuali.
Parvemi quella generositá argomento con cui poter rendere discreta la Ricci e di convincerla nelle di lei inquiete pretese.
— Vedete voi — diceva io alla comare e al di lei marito, giá ritornato con la moglie ma diviso di stanza e di letto, — a quali sciagure e a quali perdite vanno soggetti i poveri impresari interessati nella societá comica? Tuttavia pagano i stipendiati, che potrebbero per giustizia non pagare in una circostanza ch’è fatto di Principe.
Il marito, come discreto e giusto, intendeva la veritá. La moglie non dando alcuna retta al mio ragionamento, replicava la solita musica del suo scarso stipendio.
Due altre comiche compagnie che avevano aperto il loro teatro trionfavano. I miei protetti languivano. Un nuovo Truffaldino, detto Bugani, nel teatro in San Giovanni Grisostomo, infelice e laido secondo Zanni, aveva destato il risibile ne’ veneziani per modo ch’era predicato per Venezia, con perfetta ignorante ingiustizia, assai miglior Zanni del Sacchi.
Rabbiosi gli altri comici colla compagnia del Sacchi, la quale negli anni anteriori sorpassava nella fortuna tutti gli altri ricinti teatrali e per la bravura e per i soccorsi miei, si scatenarono contro quella nella sua accidentale disgrazia. De’ sonettacci satirici fulminavano il valente comico Sacchi e i suoi compagni, né in quei sonettacci stomachevoli andavano esenti le sceniche opere mie.
Non saprei dire se que’ sporchi libelli uscissero da’ meschini poetastri parziali di que’ teatri o da qualche commediante di quelli che si piccasse d’esser poeta ad onta della ignoranza.
Alcuno de’ miei protetti, piccandosi anch’esso della stessa mania e stizzito, s’ingegnava a rispondere per le rime a quei sgorbi poetici, e con altrettanta insolenza. La cittá era piena di queste sconcacature satiriche.
Consigliai ridendo le mie creature a por termine a que’ bordelli dal canto loro, e a sperare nella mia penna teatrale la loro vendetta e il castigo de’ loro triviali nimici.
Stava io abbozzando un capriccio scenico intitolato: Il moro di corpo bianco, ossia lo schiavo del proprio onore, con lusinga di risarcire la compagnia de’ danni sofferti.
Finalmente, dopo ventidue giorni di lavoro sollecito con non so quanti murai, legnaiuoli, fabbri ed altri artefici, fu dato fine al ristauro della fabbrica, che fatta esaminare da’ periti della preside magistratura, fu trovata solida e sufficiente a poter essere aperta a’ pubblici spettacoli.
Il pubblico editto però, che fu affisso a’ pilastri della cittá, era d’un senso particolare. Egli esprimeva ch’era data licenza all’apritura del teatro Vendramini in San Salvatore, esaminato dai periti, i quali assicuravano il popolo che, per quanto durava quell’autunno e quel carnovale, non sarebbe caduto.
Una tal fede era troppo limitata e troppo soggetta a un errore di conseguenza funesta. De’ maligni partigiani degli altri teatri disseminavano essere una tal fede proccurata, con altre dicerie perniziose.
Fu aperto il teatro, e per dieci o dodici recite non fu che un vero diserto, le poche persone ch’entravano alle commedie del Sacchi erano poste in ridicolo co’ titoli di stupidi o, ironicamente, di spiriti forti.
Per quanto si affaticassero que’ poveri comici e nel scegliere opere sceniche attraenti e nel recitarle, tutto riusciva a un nulla. Il popolo, preso dal ribrezzo d’un pericolo e che aveva in Venezia due altri teatri di commedia e tre di drammi musicali, trovavano abbastanza da spassarsi le sere, e guardava quel teatro al di fuori come una trappola del genere umano.
Radamisto e Zenobia di Crébillon, tradotta da un cavaliere torinese, giá recitata in Torino dalla compagnia del Sacchi, alla quale il cavaliere traduttore liberale aveva regalato un vestiario ricchissimo adatto alla tragedia medesima, fu esposta in quella occasione nel teatro di San Salvatore per fare un tentativo.
Quella tragedia con uno sforzo di decorazione inusitato, sostenuta mirabilmente da’ tre personaggi, Petronio Zanerini, Domenico Barsanti e Teodora Ricci, scemò alquanto il timor panico della popolazione e fu replicata per molte sere con buon concorso.
Ciò mi fece conoscere che il trasporto per il divertimento poteva superare ne’ veneziani il timore del pericolo di morte.
Aveva condotto a fine il mio mostro scenico, misto di passione fortissima e di popolare facezia, intitolato: Il moro di corpo bianco, con cui mi lusingava di vendicare i miei protetti e di rimetterli nella loro primiera fortuna.
L’osteria del Salvatico, in cui s’era radunata la compagnia comica ad un pranzo, ebbe la cattedra della lettura che per antipasto io feci dell’opera mia a quell’allegra comitiva.
La sorpresa, i trasporti, l’allegrezza e l’intima persuasione universale degli uditori mi fecero buon pronostico.
Donai quell’opera, ossia quella mia stravaganza poetica, che entrò in sulla scena decorata decentemente.
Il teatro fu pieno senza timori, perché la curiositá di sapere che diavolo fosse il «moro di corpo bianco» aveva fatto scordare ogni paura del ricinto che si predicava cadente.
Gli applausi, il concorso, l’irruzione ch’ebbe quella favola per diciotto successive recite, spopolarono tutti gli altri teatri. Gl’impresari dell’opere in musica maledicevano Il moro di corpo bianco. I pochi credentisi dotti commiseravano con de’ sberleffi l’ignoranza e il cattivo gusto della popolazione, io rideva, e i sonettacci satirici cessarono.
I timori del teatro caderono in una perfetta obblivione; e la compagnia comica, rimessa nella sua consueta fortuna, seguí a fare una doviziosa ricolta sino al fine di quel carnovale.
Siccome la Ricci s’accendeva di maggior ambizione per i pubblici applausi che riscuoteva meritamente anche nel Moro di corpo bianco, non rifiniva mai di stridere sul suo scarso stipendio e di minacciare l’abbandono della compagnia, nulla curando le sue firme di servire per gli anni accordati, il Sacchi venne un giorno a dirmi che le inquietezze di quella femmina disturbavano lui e la compagnia.
— Prego lei, signor conte — diss’egli, — di voler inframmettersi onde sia formata una scrittura solida, durevole per cinqu’anni, con que’ patti ch’io rimetto al di lei arbitrio, ma con una comminatoria che la parte che manca a’ patti sottoscritti deva pagare all’altra una pena di cinquecento ducati. Forse una tale comminatoria porrá freno alle inquietezze di quella donna, che ogn’anno si scorda tutti i patti, mette a campo alterazioni e pretese, minaccia e disturba.
Lei sa, signor conte — prosegui egli, — il poco frutto delle compagnie comiche dell’Italia, le enormi spese annuali de’ viaggi e trasporti, e i pericoli a’ quali gl’interessati nell’impresa vanno soggetti, appoggiati alla incertezza ed a strani avvenimenti, a fronte de’ stipendiati che devono avere l’indiminuto loro onorario accordato. Ella vide un esempio amaro in quest’anno per la sospensione di tante recite a teatro giudicato cadente e di tante prime recite a teatro vuoto. I stipendiati non perderono nulla, e il danno fu di noi interessati. Però rimetto l’arbitrio che le do alla sua giustizia, supplicandola a ridurre quella femmina alla discretezza e alla quiete.
— Veramente — rispos’io — m’impaccio mal volentieri in tali faccende. La catena di cinqu’anni per una giovine e la comminatoria mi sembrano aspre. Tuttavia parlerò e vi darò la risposta.
Dopo un lungo dialogo amichevole colla Ricci in tal proposito, le ho stabiliti ottocentocinquanta ducati l’anno, a servire per cinqu’anni la compagnia col marito, colla comminatoria voluta dal Sacchi per la parte che mancava.
Parvemi d’aver fatto qualche cosa a ridurre la detta giovine ad avere ottocentocinquanta ducati annuali, essendo venuta nella compagnia col marito nel suo principio per cinquecento e venti ducati, e parvemi di non aver fatto male nemmeno all’interesse del Sacchi. M’ingannava nel mio parere.
Estesa da me la scritta, fatta firmare dalla Ricci e dal marito, passai dal Sacchi a riferirgli il convenuto e per fargli firmare i patti. M’attendeva un ringraziamento. Eccolo.
Quel vecchio bestiale, che stava leggendo con gli occhiali sul naso, alla mia riferta cominciò il suo ringraziamento dal bestemmiare e dal dare delle pugna orrende sulla tavola a cui sedeva, come s’io l’avessi castrato. Gridò sopra la ingorda pretesa d’una femmina, che non aveva altro merito, diss’egli, che quello che le aveva dato la parte del mio dramma della Principessa filosofa.
— Come? — diss’io ridendo a tale animalesca furia — ho fatto ciò che mi pregaste di fare col pieno arbitrio che mi deste, ed ho creduto di non far male. Se non volete firmare la carta, laceratela, ch’io non ci penso e non costringo nessuno.
Egli mi fece la grazia di rientrare in se stesso, di chiedermi scusa e di firmare la scrittura. Aggiunse però: — Tutte le comminatorie del mondo non valeranno con la testa di quella donna. Ella vedrá, signor conte, delle novitá vergognose ben presto, con tutte le firme e le comminatorie di pene. La supplico della caritá di farsi dare parola di non mancare e di non far scomparire la di lei rispettabile mediazione. Ella è di lei compare; quella femmina è obbligata a lei della sua buona comparsa, dei suoi avanzamenti, e dovrebbe esser grata e avere de’ riguardi e della soggezione. Spero soltanto in ciò.
Consegnai la scrittura alla Ricci, pregandola a non farmi scomparire con delle inoneste novitá. Ella me lo promise; sembrava tranquilla, dicendo soltanto qualche mutilata parola di mal contentamento sul legame de’ cinqu’anni.
La di lei nuova abitazione, posta in luogo recondito e di nessun passaggio di gente, continuava ad accrescer forza alla maldicenza de’ suoi nimici sopra alla sua riputazione. Si diceva che in alcune ore a proposito ella ricevesse alcune visite clandestine e sospette, e mille ribalderie.
Sapeva ch’ella era malignata da alcune persone e giudicava che la maggior parte delle ciarle offensive uscissero da quelle. L’opera mia l’aveva ristabilita in ottimo credito. Parevami che le maldicenze offendessero piú me che la Ricci. Si rida del mio sciocco puntiglioso eroismo da cavaliere errante per una comica. Combatteva con tutti per la mia difesa e per difesa della innocenza della comare. Seguiva a farle le mie domestiche visite e a darle la mia assistenza; aveva preso ciò per costume di conversazione, e mi divertivano i due figliuoletti miei figliocci, invero trattati con qualche inumanitá dall’umore bilioso della madre, che tentava io invano di raddolcire.
Usava io tuttavia qualche attenzione sui passi, sulla condotta e sul costume di quella giovine per conto mio. Scorgeva in lei tanta ambizione, tanto amor proprio, tanta boria, tante occhiate in alcuni palchetti mentr’ella recitava, e tanti attucci che mi pareva impossibile che una scena improvvisa non dovesse porre un giorno a repentaglio la mia famigliare amicizia e rovesciare tutti gli edifizi da me fatti nel corso degli anni anteriori in vantaggio del di lei interesse, della di lei professione, del di lei costume e della di lei buona fama.
È per ciò ch’io le diceva con frequenza: — Io vi compiango leggendo nel vostro interno. De’ cattivi principi d’educazione hanno guasto l’animo vostro. Siete intrinsecamente inferma e non guaribile dalla cattiveria. Dalle vostre inclinazioni deve scoppiare un giorno un fulmine di vergognosa solennitá, che mi faccia tardi pentire d’esservi stato amico.
A queste franche parole mie che punto internamente non le piacevano, ella s’incantava guardandomi, e rispondeva soltanto con questi due punti, uno ammirativo e l’altro interrogativo: — È vero! Cred’Ella cosí, signor compare?