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ricchissimo adatto alla tragedia medesima, fu esposta in quella occasione nel teatro di San Salvatore per fare un tentativo.

Quella tragedia con uno sforzo di decorazione inusitato, sostenuta mirabilmente da’ tre personaggi, Petronio Zanerini, Domenico Barsanti e Teodora Ricci, scemò alquanto il timor panico della popolazione e fu replicata per molte sere con buon concorso.

Ciò mi fece conoscere che il trasporto per il divertimento poteva superare ne’ veneziani il timore del pericolo di morte.

Aveva condotto a fine il mio mostro scenico, misto di passione fortissima e di popolare facezia, intitolato: Il moro di corpo bianco, con cui mi lusingava di vendicare i miei protetti e di rimetterli nella loro primiera fortuna.

L’osteria del Salvatico, in cui s’era radunata la compagnia comica ad un pranzo, ebbe la cattedra della lettura che per antipasto io feci dell’opera mia a quell’allegra comitiva.

La sorpresa, i trasporti, l’allegrezza e l’intima persuasione universale degli uditori mi fecero buon pronostico.

Donai quell’opera, ossia quella mia stravaganza poetica, che entrò in sulla scena decorata decentemente.

Il teatro fu pieno senza timori, perché la curiositá di sapere che diavolo fosse il «moro di corpo bianco» aveva fatto scordare ogni paura del ricinto che si predicava cadente.

Gli applausi, il concorso, l’irruzione ch’ebbe quella favola per diciotto successive recite, spopolarono tutti gli altri teatri. Gl’impresari dell’opere in musica maledicevano Il moro di corpo bianco. I pochi credentisi dotti commiseravano con de’ sberleffi l’ignoranza e il cattivo gusto della popolazione, io rideva, e i sonettacci satirici cessarono.

I timori del teatro caderono in una perfetta obblivione; e la compagnia comica, rimessa nella sua consueta fortuna, seguí a fare una doviziosa ricolta sino al fine di quel carnovale.

Siccome la Ricci s’accendeva di maggior ambizione per i pubblici applausi che riscuoteva meritamente anche nel Moro di corpo bianco, non rifiniva mai di stridere sul suo scarso stipendio e di minacciare l’abbandono della compagnia, nulla curando le sue firme di servire per gli anni accordati, il Sacchi