Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XXX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte terza - XXIX Parte terza - XXXI

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CAPITOLO XXX.

Nuovo incendio del teatro dell’Opera. — Nascita del Delfino. — Feste in questa occasione. — Un teatro per l’Opera, fabbricato su i baluardi. — Matrimonio di mia nipote in Italia. — Elogio di un certo libro e del suo autore. — Alcune parole riguardanti la famiglia di uno de’ miei amici.

Il teatro dell’Opera, ridotto in cenere nel 1763, soggiacque all’istessa sorte il 16 giugno 1781 al finire dello spettacolo. La fiamma dei lumi laterali del palco scenico s’appiccò a una tela delle decorazioni. Uno dei due operai che debbono trovarsi costantemente alle due estremità, in quel momento non era al suo posto; l’altro tagliò la corda dalla sua parte, e la tela, che era rotolata, precipitò perpendicolarmente. Il fuoco salì per conseguenza con la massima rapidità in alto, e guadagnò l’intelaiatura superiore. Il fatto è, che in soli tre quarti d’ora l’interno della platea fu ridotto in cenere. Quell’istesso giorno avevo pranzato in casa del signor conte di Miromesnil, fratello del guardasigilli e cancelliere in sopravvivenza, facendo le funzioni della sua carica. Le grida del popolo unito al suono delle campane ci avvertirono ben tosto di quest’orribile infortunio. Vedemmo ad un tratto un torrente di fuoco lanciarsi sul tetto della Biblioteca del Re. Non si può spiegare abbastanza in quale spavento fossimo per un prezioso monumento di quella sorte, non meno che per il palazzo ove eravamo, e per tutto il quartiere. Il signor conte di Miromesnil spediva ad ogni momento gente al Palazzo Reale, dava ordini e presedeva egli stesso alle precauzioni necessarie in quella occasione pel bene pubblico e privato; era insomma in quel momento quell’istesso che si mostra sempre in tutti gli affari, e per le persone che gli stanno a cuore. Non vi è per certo uomo più operoso, non vi è amico più caldo, nè protettore più zelante di lui. Per simile avvenimento l’Opera non trovò da collocarsi così comodamente, come in occasione del precedente incendio. Il teatro delle Tuileries, essendo sempre occupato dalla commedia francese, gli attori cantanti furono obbligati a dar le loro rappresentazioni sul teatrino dei Menus-Plaisirs del Re, fin a tanto che ne fu fabbricato un nuovo. Diversi erano i disegni relativi a questa nuova fabbrica: ora n’era fissata la costruzione al Palazzo Reale, ora al Carousel, ora nel circondario del Mercato, ed ora altrove. Ogni giorno veniva fuori un disegno nuovo, che si dava per sicuro, che dicevasi risoluto, che pretendevasi sottoscritto, ma che non esisteva. Eppure bisognava una volta o l’altra determinarvisi. Un tale edifizio era troppo necessario per il decoro della città, non meno che per il sollievo del pubblico, e un caso fortunato per la Francia ne rendeva anche più premurosa la costruzione. La regina era incinta, e per conseguenza il teatro dell’Opera non doveva lasciare di far bella comparsa in occasione di pubbliche feste. Fu dunque rimessa ad altro tempo l’esecuzione dell’idea d’un edifizio magnifico e solido, e fu costruita in questo frattempo nel solo spazio di sessantasei giorni sopra i baluardi una sala bellissima, comodissima, piacevolissima, che tuttora esiste, e sarà certamente per esistere lungo tempo. Questo prodigio fu operato dal signor Le Noir, architetto abilissimo, pieno di sapere e di gusto; egli diede a questa sala teatrale una solidità più che bastante, e quella forma [p. 345 modifica] ed estensione di cui era suscettibile il locale. L’apertura di questo teatro seguì il giorno della nascita del Delfino, e vi si espose l’opera gratis per il popolo in segno d’allegrezza per questo felice avvenimento. Tutti erano nella gioia, e le feste corrisposero alla grandezza del soggetto. Il Palazzo di Città, destinato per ricevervi il re e la regina, fu parato riccamente. Fuvvi anche un fuoco artifiziale, il cui meccanismo era maraviglioso; ma il fuoco mancò. Coloro che in tal’occorrenza più si segnalarono furono le guardie del re. Esse diedero una festa da ballo nel gran teatro di Versailles: in ciascuna delle quattro compagnie ne furono scelte tre per ballare, e appunto ad una di loro toccò la sorte di aprir la danza con la regina. La sala era riccamente ornata, magnifica l’illuminazione, in gran copia i rinfreschi, e l’ordine poi di un’esattezza e precisione ammirabili. Io pure entrava a parte della gioia pubblica, e sia per inclinazione, sia per costume, sia per riconoscenza, mi considerava Francese al pari dei nazionali. Ma un affare di famiglia non tardò molto a ricordarmi di essere nato sotto altro cielo, e al tempo stesso un avvenimento gradito e di mio particolare vantaggio non fece che raddoppiar i piaceri da me gustati in Parigi.

Partendo da Venezia, avevo lasciato mia nipote in convento. Arrivata al vigesimo anno della sua età, bisognava che ella si decidesse per il mondo, o per il chiostro. Io le faceva di quando in quando nelle mie lettere alcune interrogazioni per sapere il suo desiderio e la sua vocazione, ma ella era in tutto e per tutto rimessa al mio volere. In quanto a me, altro non desideravo che di soddisfarla; ma parendomi di scorgere nel contegno di lei del mistero sotto il velo della modestia, pregai perciò uno de’ miei protettori a voler avere la compiacenza di scandagliare destramente l’animo di lei, ed ecco ciò che ne potè ricavare: Fintanto che io sarò tra i ferri, non esternerò mai la mia maniera di pensare. Da tale dichiarazione argomentai che ella non amava troppo il convento; tanto meglio, io non aveva beni di sostituzione da farne un assegno dotale, e le monache non vogliono che danaro contante. In questo stato di cose scrissi una lettera alla superiora del convento, ed il senatore che avevo pregato di incaricarsene, andò in compagnia di sua consorte a trovare mia nipote, e la condussero in casa, ove pure non si spiegò con troppa chiarezza, e solo quanto la modestia le permetteva. Ella pertanto non dimandava di essere maritata, ma non voleva più stare in convento. La mia nipote non era fatta per restar gran tempo in una casa patrizia; onde fu messa a dozzina in casa di savissima ed onoratissima gente. Il signor Chiaruzzi, che era l’ospite della signorina Goldoni, si prese contemporaneamente la cura dei miei affari, e sua moglie assunse l’altra dell’educazione della giovine. Ma restato vedovo in capo di due anni, chiese in moglie mia nipote; ella ne pareva contenta, ed io non potevo esserlo di più. Tanto da mio nipote che da me fu fatta al signor Chiaruzzi la cessione di tutti i nostri beni d’Italia, e gli atti necessari passarono per le mani del signor Lormeau, notaio di Parigi. La sottoscrizione d’un uomo di tanta probità non poteva essere se non ottimo augurio per i futuri coniugi. Ebbe effetto il matrimonio, ed essi sono attualmente felicissimi. Quest’avvenimento era necessario per assicurare la mia tranquillità. Essendomi spontaneamente incaricato dell’educazione dei due figli di mio fratello, ed avendo il contento di vedere mio nipote in una condizione molto ragionevole e con me, volevo avere anche l’altro di vedere collocata la nipote. Sarei stato al colmo della mia soddisfazione, se avessi [p. 346 modifica] potuto assistere alle sue nozze; ma ero troppo vecchio per intraprendere un viaggio di trecento leghe. Grazie a Dio, presentemente sto bene, ma ho bisogno di precauzione per sostenere le mie forze e la mia salute. Leggo tutti i giorni, e consulto attentamente il trattato della Vecchiaia del signor Robert, dottore reggente della Facoltà di Parigi. I nostri medici ordinari hanno solamente cura di noi quando siamo malati, procurando allora di guarirci; ma per altro non si danno la menoma briga del nostro metodo di vita, allorchè stiamo bene. Questo libro m’istruisce, mi serve di guida, mi corregge e mi fa nel tempo istesso conoscere i gradi di vigore che possono ancora restarmi, e la necessità di averne cura. Quest’opera è composta in forma di lettere; di modo che, quando io leggo, a me sembra che mi parli l’autore istesso; e ad ogni pagina io m’incontro in me stesso, e mi riconosco. I suoi avvertimenti sono tutti quanti salutari senza essere noiosi. Non ha punto la severità della scuola di Salerno; nè consiglia il regime di vita di Luigi Cornaro, che visse cent’anni malato per morire in buona salute. In una parola, il signor Robert è uomo savissimo e sommamente istruito. Egli può veramente dirsi uno di quelli, che hanno più studiato la natura, e ne conoscono gli effetti. Io ne feci la conoscenza in casa del signor Fagnan, primo commesso del Tesoro reale. Ci incontravamo spessissimo; per ciò anche adesso la vedova signora Fagnan sua consorte, donna piena d’ingegno, di grazie e di buon senso, continua sempre a riguardare con la medesima cordialità gli amici intimi del defunto marito.