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capitolo xxx 345


ed estensione di cui era suscettibile il locale. L’apertura di questo teatro seguì il giorno della nascita del Delfino, e vi si espose l’opera gratis per il popolo in segno d’allegrezza per questo felice avvenimento. Tutti erano nella gioia, e le feste corrisposero alla grandezza del soggetto. Il Palazzo di Città, destinato per ricevervi il re e la regina, fu parato riccamente. Fuvvi anche un fuoco artifiziale, il cui meccanismo era maraviglioso; ma il fuoco mancò. Coloro che in tal’occorrenza più si segnalarono furono le guardie del re. Esse diedero una festa da ballo nel gran teatro di Versailles: in ciascuna delle quattro compagnie ne furono scelte tre per ballare, e appunto ad una di loro toccò la sorte di aprir la danza con la regina. La sala era riccamente ornata, magnifica l’illuminazione, in gran copia i rinfreschi, e l’ordine poi di un’esattezza e precisione ammirabili. Io pure entrava a parte della gioia pubblica, e sia per inclinazione, sia per costume, sia per riconoscenza, mi considerava Francese al pari dei nazionali. Ma un affare di famiglia non tardò molto a ricordarmi di essere nato sotto altro cielo, e al tempo stesso un avvenimento gradito e di mio particolare vantaggio non fece che raddoppiar i piaceri da me gustati in Parigi.

Partendo da Venezia, avevo lasciato mia nipote in convento. Arrivata al vigesimo anno della sua età, bisognava che ella si decidesse per il mondo, o per il chiostro. Io le faceva di quando in quando nelle mie lettere alcune interrogazioni per sapere il suo desiderio e la sua vocazione, ma ella era in tutto e per tutto rimessa al mio volere. In quanto a me, altro non desideravo che di soddisfarla; ma parendomi di scorgere nel contegno di lei del mistero sotto il velo della modestia, pregai perciò uno de’ miei protettori a voler avere la compiacenza di scandagliare destramente l’animo di lei, ed ecco ciò che ne potè ricavare: Fintanto che io sarò tra i ferri, non esternerò mai la mia maniera di pensare. Da tale dichiarazione argomentai che ella non amava troppo il convento; tanto meglio, io non aveva beni di sostituzione da farne un assegno dotale, e le monache non vogliono che danaro contante. In questo stato di cose scrissi una lettera alla superiora del convento, ed il senatore che avevo pregato di incaricarsene, andò in compagnia di sua consorte a trovare mia nipote, e la condussero in casa, ove pure non si spiegò con troppa chiarezza, e solo quanto la modestia le permetteva. Ella pertanto non dimandava di essere maritata, ma non voleva più stare in convento. La mia nipote non era fatta per restar gran tempo in una casa patrizia; onde fu messa a dozzina in casa di savissima ed onoratissima gente. Il signor Chiaruzzi, che era l’ospite della signorina Goldoni, si prese contemporaneamente la cura dei miei affari, e sua moglie assunse l’altra dell’educazione della giovine. Ma restato vedovo in capo di due anni, chiese in moglie mia nipote; ella ne pareva contenta, ed io non potevo esserlo di più. Tanto da mio nipote che da me fu fatta al signor Chiaruzzi la cessione di tutti i nostri beni d’Italia, e gli atti necessari passarono per le mani del signor Lormeau, notaio di Parigi. La sottoscrizione d’un uomo di tanta probità non poteva essere se non ottimo augurio per i futuri coniugi. Ebbe effetto il matrimonio, ed essi sono attualmente felicissimi. Quest’avvenimento era necessario per assicurare la mia tranquillità. Essendomi spontaneamente incaricato dell’educazione dei due figli di mio fratello, ed avendo il contento di vedere mio nipote in una condizione molto ragionevole e con me, volevo avere anche l’altro di vedere collocata la nipote. Sarei stato al colmo della mia soddisfazione, se avessi