Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XXIII

XXIII

../XXII ../XXIV IncludiIntestazione 4 dicembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXIII
Parte terza - XXII Parte terza - XXIV

[p. 327 modifica]

CAPITOLO XXIII.

Matrimonio del conte d’Artois fratello del re. — Arrivo a Parigi del cavalier Giovanni Mocenigo, nuovo ambasciatore di Venezia. — Suo felice negoziato per la soppressione del diritto fiscale sulle eredità dei non nazionali. — Mie attenzioni per gl’Italiani. — Nuova edizione del Metastasio. — Incisori italiani che vi si sono resi chiari.

Nel mese di novembre dell’anno 1773 fu celebrato a Versailles il matrimonio del conte d’Artois fratello di Luigi XVI con Maria Teresa di Savoia, figlia del re di Sardegna, e sorella di Madama. Le feste ordinate per tale occasione furono eseguite con la solita pompa e magnificenza. Quanto la stagione fu contraria agli spettacoli campestri del parco, altrettanto riuscirono splendidi gli appartamenti per le diverse sale di ballo e di giuoco, come pure per la quantità di forestieri accorsi da ogni parte per ritrovarsi a queste nozze, e passar l’inverno a Parigi. Circa quel tempo, il cavaliere Giovanni Mocenigo venne in qualità d’ambasciatore di Venezia per subentrare al cavaliere Sebastiano Mocenigo suo fratello, che terminava i suoi quattro anni di ambasceria. Questo nuovo ministro della Repubblica era appunto uno dei miei antichi protettori; avevo infatti ricevuto da lui prove convincenti della sua benevolenza, essendosi compiaciuto di alloggiarmi nella sua propria casa per molto tempo, e con tutta la mia famiglia. Egli inoltre unitamente ai Balbi, Querini, Valier, Berengan e Barbarigo protesse la mia prima edizione di Firenze, facilitandone l’introduzione in Venezia, ad onta della crudele ed ostinata guerra che mi si faceva dai librai. Ma ecco qui una nuova e più significante conferma della sua bontà a mio riguardo. Nell’occorrenza del suo matrimonio con la nipote del doge Loredan, ebbe la degnazione di scrivermi il seguente biglietto: «Il serenissimo doge mi ha permesso d’invitare alle mie nozze alcuni de’ miei amici. Voi siete in questo numero: vi prego dunque d’intervenirci, chè vi sarà la vostra posata». Non mancai. Eravi una tavola di cento persone nella sala chiamata dei Banchetti, e ve n’era un’altra di ventiquattro, alla quale il nipote del doge faceva gli onori della casa. Io era appunto a quest’ultima: al secondo servito lasciammo tutti il nostro posto, e andammo nella gran sala, a fare il giro di quell’immenso convito, fermandoci or dietro gli uni, ordietro gli altri. Io specialmente godetti tutte le gentilezze che si profondevano a un autore che aveva la sorte di piacere.

Il signor cavaliere Giovanni Mecenigo, durante il corso della sua ambasciata, rese alla sua nazione un importante servigio. Trattò con la corte di Francia l’estinzione reciproca del diritto del fisco sui beni ereditari dei non nazionali, e vi riuscì. La notizia di tal successo fu per me di soddisfazione grandissima, e quantunque io non ci avessi molto interesse, non ritrovandomi nulla da lasciare [p. 328 modifica] dopo morte ai miei eredi, godevo, ciò non ostante, assai per quei Veneziani i quali hanno affari in Francia. Ho sempre riguardato i miei compatriotti amichevolmente, ed essi in mia casa sono sempre stati i ben venuti. Mi son trovato, è vero, più d’una volta ingannato, ma i cattivi non mi hanno mai potuto privare del piacere di rendermi utile: e spero che niun Italiano sia partito mal contento di me. Soddisfatissimo del mio soggiorno in Francia, amo molto conversare di tempo in tempo con gente della mia nazione, o con Francesi che posseggano la lingua italiana. Il luogo ove più frequentemente ne incontro, è in casa della signora Boccage. Non vi è infatti forestiero ragguardevole per qualità o per meriti, che, arrivato a Parigi, non procuri di fare a questa rispettabilissima donna la corte: in casa appunto di questa signora feci una scoperta della maggiore importanza e piacevolissima per me. Un giorno, che dovevo pranzarvi, la signora contessa Bianchetti, nipote della signora Boccage, mi presenta una signora, che avrei dovuto conoscere, ma che in veruna maniera riconosceva, e restai fuor di modo maravigliato sentendomi salutare in buonissimo veneziano da questa stessa persona, che fino a quel momento aveva parlato perfettamente il francese.

Era questa la moglie del signor della Borde, amministratore generale dei regi beni, e sorella del signor le Blond, che successe al padre nel consolato di Francia in Venezia. Avevo conosciuto questa signora nella sua prima gioventù, ed era la minore di tre sorelle chiamate le tre bellezze di Venezia. Dopo il dialetto toscano e veneziano, quello che mi diverte più d’ogni altro è il genovese. Iddio (dicono gl’Italiani) nell’assegnare a ciascheduna nazione il suo linguaggio pose in dimenticanza i Genovesi: essi dunque ne composero uno a loro capriccio, che risente ancora la confusione delle lingue della torre di Babele. Questo linguaggio è quello di mia moglie; io lo capisco, e lo parlo sufficientemente bene. Avevo anche avuto occasione altre volte di parlare frequentemente con un Genovese mio amico; allontanato da Parigi per alcuni suoi affari, se ho perduto il piacere di trattenermi con lui, mi è restato quello di pranzare spessissimo dalla sua moglie. Frequenta la casa di lei una brigatella graziosissima. Il signor Valmonte de Bomare, celebre naturalista, che non ricusa di istruire e di divertire nel tempo stesso i commensali, quando lo si interroga intorno alle vaste sue cognizioni. Il signor Coqueley de Chaussepierre, avvocato al parlamento, che adorna con le sue grazie e col suo brio i ragionamenti seri egualmente che i galanti: v’intervengono pure altre amabili non meno che rispettabili persone. A tavola si ragiona, si passano in rassegna le notizie del giorno, si parla di spettacoli, di recenti scoperte, di proposte, di avvenimenti. Ognuno, in somma, dice il suo parere, e se mai insorge qualche discussione la padrona di casa, piena di cognizioni e di discernimento, prende le parti della riconciliazione. Se le mie Memorie hanno la sorte di valicare i mari, il mio amico *** vedrà che io non mi sono scordato di lui; altro in sostanza non fo se non render giustizia alla verità; nulla essendovi di più caro per me dell’opportunità di parlare de’ miei amici che molto amo, che amerò costantemente, siano essi Italiani o Francesi. La nazione francese poi oggidì mi è cara al pari della mia propria, ed è un grande piacere per me, allorquando incontro dei Francesi che parlano l’italiano. Ne rammenterò alcuni, che, per quanto io valgo a giudicarne, lo parlano e lo scrivono meglio degli [p. 329 modifica] altri. La signora Pothouin, vedova da poco tempo del signor Pothouin, avvocato al parlamento di Parigi, è donna amabile non meno che rispettabile per il suo brio, e per il suo ingegno, quanto era il consorte di lei per la sua scienza ed integrità. Sebbene non sia mai stata in Italia, e abbia cominciato lo studio della lingua italiana molto tardi, nè lo abbia continuato che per due soli anni, la signora Pothouin, io dico, è certamente in grado di sostenere con gl’Italiani stessi qualunque lungo colloquio, valendosi dei migliori vocaboli, dei modi più usitati, delle frasi meglio composte. Anche il signor presidente Tachar aggiunge alle sue vastissime cognizioni ed al gusto della letteratura francese, quello pure della lingua e letteratura italiana. Allora quando occupava l’importantissima e laboriosa carica di soprintendente all’Isole del Vento in America, trovava tempo per iscrivermi, e la nostra corrispondenza era sempre in italiano. In quel tempo non era, a dir vero, troppo franco nel dialetto toscano, ma sbagliava per altro ben di rado. Dopo il suo ritorno d’America fece anche un viaggio in Italia, compito il quale, non parve più in tutti i suoi discorsi, e nelle sue lettere un Francese imitatore degl’Italiani, ma uno che appartenesse a queste due nazioni in egual modo. La signora baronessa di Bordic parimente ha molto gusto e molta facilità per la lingua italiana. Io ebbi l’onore di vederla e fare la sua conoscenza a Parigi, ove ella si rese per qualche tempo la delizia di quanti la frequentavano; essa era stimata per le sue qualità, ammirata per il suo ingegno, affettuosamente amata e gradita per la dolcezza de’ suoi versi; insomma era adorata. La signora de Bordic trovasi presentemente a Nimes, ed io tuttora mi dolgo della privazione della sua compagnia. Ma la sua corrispondenza me ne dà qualche compenso, e le lettere di cui ella mi onora di tempo in tempo provano lo studio ch’ella fa della nostra lingua e dei nostri autori. Il signor Cousin, avvocato del re nel baliaggio di Caux, è parimente un gran dilettante di lingua italiana: io non ho mai avuto l’onore di vederlo, egli bensì mi ha fatto quello di scrivermi da Dieppe ove dimora, sempre in italiano e qualche volta ancora nel dialetto veneziano. La letteratura italiana è molto gustata in Francia; i nostri libri vi son bene accolti, benissimo pagati, e le biblioteche di Parigi ne sono riccamente fornite. Il fu signor Floncel ne aveva una di sedici mila volumi, tutti quanti in lingua italiana, ed il signor Molini, libraio italiano in questa capitale, ne fa parimente un commercio considerevole. La quantità degli esemplari delle mie commedie spacciate in questo paese è prodigiosa, e la premura con cui si è ora aperta la soscrizione della nuova edizione dell’Opere del Metastasio è anche maggiore. Questa stupenda edizione, condotta ed eseguita dalla dilingente cura del signor Pezzana, è ornata di tutte le grazie dell’arte tipografica. Essa è bella, ma è anche cara; due cose, che mai non vanno disgiunte. Vi sono rami preziosissimi, e vi si ammira fra l’altre cose un Polifemo del Bartolozzi, e in parecchie stampe l’eccellenza del disegno e del bulino del signor Martini. È questi uno dei migliori allievi del signor Le Bas, parmigiano, uomo onestissimo, savissimo e sommamente instruito, artista che fa onore all’Italia. Presentemente trovasi a Parigi, ove ha stabilito la sua dimora, come me, ed ha fatto benissimo.