Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XVII

XVII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte terza - XVI Parte terza - XVIII

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CAPITOLO XVII.

Seguita il capitolo precedente. — Aneddoti che riguardano Gian Giacomo Rousseau. — Alcune considerazioni sopra questo soggetto.

Comparve, sono già tre anni, un libro intitolato [[|Confessioni di G. Giacomo Rousseau]], cittadino di Ginevra, le quali altro non sono che aneddoti riguardanti la vita di lui, e scritti da lui medesimo. In quest’opera non ha avuto per sè stesso il minimo riguardo, anzi ha cavato fuori delle singolarità che potrebbero fargli torto, quando la celebrità del suo nome non lo difendesse da ogni critica.

Mi è però nota un’avventura accadutagli negli ultimi anni della sua vita, e che non trovasi nelle sue Confessioni; o egli l’ha forse dimenticata, oppure non ha avuto tempo di collocarla con l’altre in questo libro, che è postumo. Benchè questo aneddoto non mi riguardi direttamente, contuttociò io ne fo qui menzione, perchè fu appunto la causa che m’impedì di comunicare al signor Rousseau [p. 311 modifica] il mio Burbero benefico. Questo dotto straniero aveva in Parigi molti amici e ammiratori. Nel numero d’entrambi era il signor *** che lo amava, stimava e lo compiangeva nel tempo medesimo, conoscendo bene le angustie della sua vita, non meno che il suo ingegno. Questo signor*** offrì un giorno al letterato di Ginevra un appartamento ben mobiliato, bellissimo, comodissimo, prossimo al giardino delle Tuileries, e per non offendere la delicatezza dell’amico, gliel’offrì al prezzo medesimo che egli pagava alla locanda. Il Rousseau si accorse bene dell’intenzione di quest’uomo generoso, e ricusando bruscamente ogni esibizione, gridò ad alta voce che non voleva essere ingannato. Il signor*** che pure era filosofo, ma che, essendo Francese, sapeva unire la gentilezza alla filosofia, non ebbe a sdegno la ripulsa; conosceva troppo bene quell’uomo, e gli perdonava di buon animo ogni sua debolezza; onde non cessò di vederlo e salire tranquillamente a un quarto piano per trattenersi con lui.

Siccome aveva inteso parlare delle Confessioni di G. Giacomo aveva perciò desiderio di vederle, o interamente o in parte, e rammentandosi di aver nel suo portafogli alcuni Caratteri del secolo, da lui medesimo composti alla maniera di Teofrasto e del La Bruyère, propose all’amico la lettura reciproca di queste due opere. Fu dal Rousseau accettata la proposizione, col patto però che il signor*** avesse gradita una cena frugale alla locanda Plâtrière. A tale invito questi fece intendere che sarebbero stati con maggior comodo in casa sua: Non importa (rispose l’altro); ciò deve seguire in casa mia, o altrimenti non si leggerà; vi permetto al più di portare una bottiglia del vostro vino, giacchè in questa locanda me lo danno molto cattivo. A tutto si adatta il docile Francese: ma essendo per sua disgrazia troppo garbato e troppo cortese, manda al Rousseau una paniera di sei bottiglie di eccellente vino, ed altre sei di malaga perfetto. Una tale improvvisata cagionò al Ginevrino un pessimo umore; giunge il Francese, che se ne accorge e gliene chiede ragione. — Non è mai possibile, risponde l’uomo sdegnato, che tra noi due si bevano dodici bottiglie di vino, io dunque ne ho levata dalla vostra paniera una soltanto, e questa basta per una piccola refezione: rimandate perciò subito il restante, se volete cenare in mia casa. La minaccia non era da recare spavento, ma quello che importava sommamente al commensale era la promessa lettura. Per buona sorte aveva appunto seco il servitore, onde per il medesimo rimandò indietro la paniera. Il Rousseau allora fu contento, e incominciò a leggere il primo. Questo rinvio del vino fece loro perder tempo, e restò anche interrotta la lettura dalla signora Rousseau che aveva bisogno della tavola alla quale erano i due amici, per apparecchiare; si sarebbe potuto leggere anche senza tavola, ma la cena fu allestita nel momento, e questa consisteva in una pollastra ed in un’insalata. Finita la cena, tocca a leggere al signore***, ed egli legge un capitolo, che va a maraviglia ed è applaudito; ne legge un secondo: a questo il signor Rousseau si alza; ed in aria di persona inquieta e sommamente irritata, si mette a passeggiare per la stanza. Interrogato sul motivo della repentina sua collera: No, non si viene (egli risponde) in casa di gente dabbene per insultare. — Come! (ripigliò l’altro) e di che cosa vi lagnate mai? — Eh, non avete a fare con un balordo (soggiunse il filosofo): nel vostro scritto altro non faceste, che delineare con un colorito anche troppo caricato e con modi satirici il mio ritratto. Questa è un’azione empia e indegna. — Adagio (dice [p. 312 modifica] il Francese): io vi amo, vi stimo, e voi mi conoscete; è un uomo duro, collerico, fastidioso quello che ho voluto ritrarre... se ne incontrano spesso nella civile società. — Sì, sì, so benissimo (risponde il Rousseau), che nell’animo degli ignoranti io passo per tale; io li compiango, e li disprezzo; per altro non soffrirò mai, che un uomo, come voi, che un amico... vero o falso che sia, venga a prendersi giuoco di me. — In somma il signore*** ebbe un bel dire ed un bel fare, ma non potè ottenere nulla; Gian Giacomo era troppo indispettito, e terminarono scorrucciandosi sul serio, e ci corsero in appresso delle lettere pungentissime da una parte e dall’altra.

Essendo io in amicizia col letterato francese, ed avendolo veduto il giorno dopo la contesa avuta col signor Rousseau in una conversazione ove ci trovavamo spesso, fummo dal medesimo messi al fatto di quanto eragli accaduto: taluni risero, altri fecero le loro osservazioni, ed io pure non mancai di fare le mie. Il Rousseau era burbero come da se stesso aveva confessato nella controversia sostenuta col suo amico; non aveva che ad appropriarsi la beneficenza, perchè dicesse che ancor io aveva voluto rappresentarlo nel mio Burbero benefico. Mi guardai bene di espormi al pericolo di soffrire le sue stravaganze, e nol vidi più. Quest’uomo era nato con disposizioni felicissime, ed infatti ne ha dato le maggiori prove; ma siccome era di religione protestante ed aveva fatto opere non ortodosse, fu per questo obbligato ad abbandonare la Francia, da lui adottata per patria; sciagura che lo rese appunto irrequieto. Credeva gli uomini ingiusti, e li disprezzava; ma questo disprezzo non poteva mai tornare in vantaggio di lui. Quante generose esibizioni, quante protezioni non ha egli ricusate? Il suo lettuccio eragli divenuto assai più caro di un palazzo. Taluni nella sua fierezza scorgevano grandezza d’animo; altri, orgoglio soltanto. Comunque sia, egli è sempre da compiangere; le sue debolezze non offendevano chicchessia, mentre il suo ingegno lo aveva reso rispettabile. È morto da filosofo, come era vissuto, onde la repubblica delle lettere deve sapere buon grado all’uomo generoso, che onorò le ceneri di lui.