Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XVI

XVI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte terza - XV Parte terza - XVII

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CAPITOLO XVI.

Osservazioni riguardanti il Bourru bienfaisant. — Colloquio con Gian Giacomo Rousseau sull’istesso soggetto.

Il mio Burbero benefico non poteva incontrare miglior fortuna di quella che incontrò, ed io ebbi veramente sorte nel trovare in natura un carattere nuovo per il teatro, un carattere che si presenta ovunque, e che nondimeno era sfuggito alle ricerche degli autori antichi e moderni. Ne sarà stata forse causa l’opinione, che un uomo burbero, siccome riesce tedioso alla civile società, sia per essere sgradevole anco sulla scena; e certamente, quando si voglia riguardare sotto questo aspetto, convien dire che abbian fatto benissimo a non valersene punto nelle loro opere; anzi me ne sarei astenuto io medesimo, se altre mire non mi avessero fatto sperare di trarne profitto. L’oggetto principale della mia commedia è la beneficenza; e la vivacità dell’uomo benefico somministra la parte comica, inseparabile nella commedia. Virtù dell’animo è la beneficenza; difetto di temperamento è il rozzo e scortese tratto; l’uno e l’altro però son benissimo conciliabili in un istesso soggetto; dimodochè secondo questi principii architettai il mio disegno; ed è la sensibilità, quelle che ha reso sopportabile il mio Burbero.

Alla sua prima rappresentazione io mi era nascosto, come aveva sempre fatto in Italia, dietro la tela che chiude la decorazione, dimanierachè nulla vedevo, ma udivo i miei attori, e gli applausi del pubblico. Me ne stavo passeggiando nel tempo dello spettacolo da un lato all’altro, accelerando il passo nelle scene più vivaci, ed allentandolo nei momenti di maggiore affetto e passione, contentissimo de’ miei attori, e facendo ancora io eco agli applausi del pubblico. Terminata la rappresentazione, sento battimani e grida senza fine. Mi si appressa il signor Dauberval, quegli appunto che doveva condurmi a Fontainebleau; al primo vederlo, credo che egli mi cerchi per farmi partire; ma niente affatto; mi dice anzi: — Signore, venite, bisogna farsi vedere. — Farmi vedere? a chi? — Al pubblico, che assolutamente vi domanda. — No, no certamente, amico caro; partiamo piuttosto, partiamo subito; non sarebbe possibile che io sostenessi... — Sopraggiungono i signori le Kain e Brizard, che mi prendono per le braccia, e mi tirano per forza sul palco scenico. Contuttochè avessi veduto molti altri autori sostenere con coraggio una simile cerimonia, io per altro non vi era punto assuefatto, non essendovi uso in Italia di congratularsi con i poeti in pubblico. Non potevo concepire come un uomo potesse tacitamente dire agli spettatori: Signori, eccomi qua, applauditemi. Dopo aver sostenuto adunque per alcuni minuti secondi quella condizione per me singolare ed incomoda, rientro fra le scene, attraverso le sale d’aspetto e vado a trovare la carrozza che mi attendeva, ed in questo passaggio incontro un’infinità di gente che veniva in cerca di me. Senza che io conoscessi alcuno, discendo con la persona che mi accompagnava, entro nella mia carrozza ove la moglie ed il nipote vi avean già preso posto. Piangevano entrambi di consolazione per il felice successo della mia commedia, e li faceva ridere come matti [p. 308 modifica] l’aneddoto della mia comparsa sul palco scenico. — Trovandomi stanco, avevo bisogno di riposare e di dormire. Contento il mio cuore e tranquilla la mia mente, avrei passato nel mio letto una notte soave, ma in un legno da posta chiudevo appena l’occhio, che ad ogni istante ne ero svegliato dalle scosse; insomma dormicchiando, discorrendo, sbadigliando, giungemmo alfine a Fontainebleau. Quivi prendo riposo, poi desino, passeggio, e vo a vedere la rappresentazione della mia commedia, sempre però dietro le scene. Nel capitolo precedente ho fatto menzione del suo buon incontro alla corte. Benchè non fosse allora permesso di applaudire nella casa del re, ciò non ostante si scorgeva benissimo, da certi moti naturali e permessi, l’effetto grande che la commedia produceva sull’animo degli spettatori. Il giorno dopo ebbi l’onore di essere presentato al re, nel suo gabinetto particolare, dal signor maresciallo di Duras. Sua Maestà e tutta quanta la famiglia reale mi diedero segni della solita loro benignità.

Non ritornai a Parigi se non nell’occasione della seconda recita della mia commedia, durante la quale vi fu qualche agitazione nella platea, che indicava un principio di mal umore. Io era nel solito mio posto, quando il signor Feuilli venne a farmi questo discorso: — No, non vi date la minima pena; questo è tutto effetto di cabala. — Come? (io ripresi) eppure non ve n’è stata nella prima rappresentazione. — Non ve n’è stata (soggiunse il comico), perchè i gelosi non vi temevano, burlandosi di uno straniero che aveva la pretensione di esporre una commedia in francese, onde la cabala non era ancora preparata: con tutto questo, state pur certo, che nulla avete a temere; il colpo è fatto, ed è assicurato il felice successo. Difatti questa commedia andò sempre di bene in meglio fino alla duodecima rappresentazione, dimodochè i comici ed io d’accordo non la ritirammo, se non per farla nuovamente comparire in una stagione più vantaggiosa. Nessuno diceva male del mio Bourru bienfaisant, ma se ne parlò per altro in diverse maniere: taluni credevano, che ella fosse un lavoro tratto dal mio Teatro italiano, ed altri sospettavano, che io l’avessi qui scritta in italiano, e poi tradotta in francese. I primi potevano persuadersi del contrario riscontrando la collezione delle mie Opere; gli ultimi poi, seppur tuttora ve ne sono, mi è facile disingannarli. Non solo mi proposi di scrivere la mia commedia in francese, ma ebbi altresì in mira la maniera francese nell’immaginarla; ed infatti essa porta fedelmente, l’indole della sua origine tanto nei pensieri quanto nelle immagini, tanto nei costumi quanto nello stile. Se ne son fatte due differenti traduzioni in Italia, le quali, benchè non siano cattive, nulladimeno non s’avvicinano a gran pezza all’originale. Io medesimo mi son provato per divertimento a tradurne alcune scene, e posso dire di aver sentita tutta la fatica di tal lavoro, non meno che la difficoltà di riuscirvi; vi son certe frasi, certi modi convenzionali che nella traduzione perdono ogni sale. Esaminiamo per esempio nella scena XVII del secondo atto, il vocabolo jeune homme, pronunziato da Angelica; e vedremo che non vi è l’equivalente in italiano. La parola giovine è troppo abietta, ed è al disotto della condizione di Angelica; giovinetto sarebbe troppo affettato in bocca di una ragazza timida e morigerata; per ben tradurlo sarebbe necessario valersi di una perifrasi, che altro non sarebbe se non dar troppa chiarezza al senso sospeso, e conseguentemente guastare la scena. I caratteri del signore e della signora Dalancour sono immaginati e trattati con una delicatezza, conosciuta soltanto in Francia. In [p. 309 modifica] tutta la mia commedia questi due personaggi sono quelli di cui più mi compiaccio. Una moglie che rovina manifestamente il marito, un marito che inganna sua moglie per soverchio affetto, sono esseri che purtroppo esistono, nè son rari nelle famiglie; onde io me ne valsi come episodii, benchè avessi potuto farne soggetti principali, da riuscir forse nuovi al pari del Burbero benefico. Ho adunque immaginato e scritto questa commedia in francese, ma non sono stato però tanto ardito di produrla, senza avere preventivamente consultato quelle persone che erano in grado d’istruirmi e correggermi, ed ho tratto profitto dai loro pareri.

Circa quel tempo era di ritorno a Parigi il signor Rousseau ginevrino. Tutti si affrettavano di vederlo; ma egli non era visibile a tutti. Io lo conosceva unicamente per fama, ed aveva gran desiderio di aver seco un colloquio, allo scopo di sottoporre la mia commedia al giudizio di un uomo tanto profondo conoscitore della lingua e della letteratura francese. Per essere sicuro di venire bene accolto, era necessario avvertirlo; a tale effetto presi l’espediente di scrivergli, manifestandogli il vivo desiderio che avevo di fare la sua conoscenza. Mi rispose garbatissimamente, che non esciva di casa, e mai andava in luogo alcuno; che se volevo prendermi l’incomodo di salir quattro scale in via Plâtrière, alla locanda Plâtrière gli avrei fatto sommo piacere. Accetto l’invito, e ci vo pochi giorni dopo.

Parmi a proposito render qui conto del mio colloquio col cittadino di Ginevra. Il risultato della nostra conversazione non fu molto importante, e nè si parlò della mia commedia, se non incidentalmente, e leggermente. Mi valgo però di tale opportunità per parlare di un uomo straordinario, che aveva ingegno straordinario, debolezze e pregiudizi incredibili. Salgo dunque al quarto piano della locanda indicatami, picchio: aprono, e mi si presenta una donna, nè giovane, nè bella, nè graziosa. Domando se il signor Rousseau è in casa. — Vi è, e non vi è (risponde questa donna, che io credeva tutt’al più sua governante); — e domanda il mio nome. Mi fo conoscere, ed ella allora soggiunse: Oh! appunto vi si aspettava; vo subito a darne avviso a mio marito. —

Entro, un momento dopo, vedo il celebre autore dell’Emilio, che stava copiando musica. Quantunque avvertito, pur non ostante non potevo tenermi dal fremere tra me di sdegno. Mi accoglie con modi schietti e amichevoli; si alza, e tenendo un quaderno in mano: Guardate (egli mi dice), se vi è alcuno, che copi la musica come me. Sfido, che dal torchio esca uno spartito così bello ed esatto come esce di casa mia. Andiamo, andiamo a scaldarci (egli prosegue). E non si dovea fare che un passo per accostarci al caminetto. Non essendovi fuoco, dimanda un ceppo, che è portato dalla signora Rousseau. Io mi alzo, faccio posto, ed offro una sedia alla signora: No, no, non v’incomodate (risponde il marito): mia moglie ha da fare; è occupata. — Sentivo lacerarmi il cuore. Veder fare il copista a un letterato di quella fatta, ed a sua moglie la serva, era veramente per i miei occhi uno spettacolo desolante, nè potevo celare la mia pena e la mia maraviglia, benchè non dicessi nulla. Questo uomo che non era un balordo, pur troppo si accorse che il mio animo era angustiato: onde fattemi diverse interrogazioni, fui forzato a confessargli la cagione del mio silenzio e sbalordimento. — Come? (prese egli a dire) voi mi compiangete perchè mi occupo a copiare? siete voi dunque di parere che io facessi meglio a compor libri per gente che non sa leggere, o a somministrare materie per [p. 310 modifica] articoli a giornalisti maligni? Siete in errore: io amo la musica per passione, copio eccellenti originali, ciò mi dà da vivere, ciò mi diverte, e questo è quanto basta per me. Ma voi, voi medesimo (proseguì sempre), che cosa andate facendo? Siete venuto a Parigi a lavorare pe’ comici italiani; costoro sono tanti infingardi: essi non si curano delle vostre commedie; eh via! andatevene, ritornate a casa vostra, so che siete desiderato, siete aspettato... — Signore (io gli risposi interrompendolo), avete ragione: io per la negligenza de’ miei comici avrei dovuto abbandonare Parigi, ma mi vi trattennero altre considerazioni. Ho di recente composto una commedia in francese... — Voi avete composto una commedia in francese? (riprese egli subito in aria di grande stupore) che cosa volete farne? — Per darla al teatro. — A quale? — Al francese. — E voi siete quello che mi rimproverate ch’io perdo il tempo: siete ben voi, che lo perdete, e senza frutto. — Ma la mia commedia è già accettata. — Possibile? Basta; non me ne maraviglio: i comici non hanno senso comune, ricevono e ricusano a capriccio; sta bene che il vostro lavoro sia stato ricevuto, ma non sarà rappresentato, e peggio per voi se mai lo fosse. — Ma, signore, come potete dar giudizio di un’opera, che non avete veduta? — Io conosco il gusto degli Italiani tanto bene quanto quello dei Francesi; havvi troppa distanza dall’uno all’altro, e con vostra permissione non è possibile cominciare nell’età vostra a scrivere e comporre in una lingua straniera. — Le vostre considerazioni, o signore, sono giustissime, non niego, ma per altro si possono superare benissimo le difficoltà che dite. Ho affidata la mia commedia a gente d’ingegno, a persone intelligenti che ne sembrano contente. — Eh, siete adulato, siete ingannato, ne porterete la pena. Fatemi un po’ vedere la vostra commedia; io son franco, sincero, e vi dirò la verità. —

Qui appunto volevo condurlo, non già per consultarlo, ma per vedere se dopo la lettura del mio lavoro avesse sempre persistito nella poca fiducia che mi dimostrava. Siccome il manoscritto era in mano del copista del Teatro francese, promisi al signor Rousseau di rimetterglielo subitochè mi fosse stato restituito; era di fatto mia intenzione di mantenergli la parola. Nel capitolo seguente si vedrà la ragione che me ne distolse.