Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/X
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte terza - IX | Parte terza - XI | ► |
CAPITOLO X.
- Mio ritorno a Parigi. — Nuova società letteraria. — Difficoltà delle traduzioni. — Alcune mie opere tradotte in francese. — Teatro di un incognito. — Traduzione del mio Avvocato veneziano. — Quella del Servo di due padroni. — Scelta delle migliori commedie italiane. — Qualche parola sopra quest’opera. — Dialogo fra una dama, un signore, e me.
Tornai a stabilirmi a Parigi, ma per altro tenni sempre un quartierino a Versailles. Troppo mi premeva di star presso le mie auguste protettrici, e vedere se la lingua e la letteratura italiana avessero mai acquisto un discepolo fra i giovani principi e le principesse. Lo studio delle lingue straniere nella corte di Francia non è riguardato come studio, ma come semplice divertimento, permesso a chi lo richiede e chi trova in grado di profittarne. Uno solo fra i tre principi pareva disposto ad imparar l’italiano, incombenza che fu data al signor abate di Landoviller dell’Accademia francese. In questa occorrenza egli mise in pratica il suo Metodo d’imparare le lingue stampato nel 1768; vi riuscì a maraviglia, e il principe fece progressi mirabili. Ero senza impiego e senza occupazione: nulla avendo concluso nei primi tre anni d’impiego alla corte, cercavo la opportunità di impiegare utilmente il mio tempo. Il signor de la Place ed il signor Favart, due membri della nostra antica Domenicale, mi proposero una nuova società letteraria. Consisteva questa in un crocchio, che univasi a bocca e borsa all’insegna della Spada di legno, dirimpetto alle gallerie del Louvre; ivi si adunavano una volta la settimana. Il trattamento era buonissimo, amabile la compagnia, utili le conversazioni. Ecco qui i nomi dei commensali: M. de la Place, M. Coquelet de Chaussepierre, M. de Veselle, M. Laujon, M. Louis, M. Dorat, M. Colardeau, M. du Doyez, M. Barthe, Vernet, ed io. Di lì a poco anche il signor conte di Coigny volle onorare personalmente i nostri pranzi ed accrescere il diletto delle nostre conversazioni; con tuttociò le nostre adunanze non ebbero lunga durata. Era solennemente proibito introdur persona senza il consenso universale della società. Avvenne che uno dei soci si prese l’arbitrio di condurvi un suo amico, il quale non era di comune piacere; poichè, quantunque uomo di merito, pure egli era autore di un foglio periodico, col quale avea recato dispiacere a qualcheduno della società, onde la nostra assemblea andò a finire come la Domenicale. Ne fui dolentissimo, poichè erami vantaggioso convivere con persone che sapevano perfettamente la loro lingua. Infatti fin d’allora avevo in mira di comporre qualche cosa in francese, volendo con questo saggio provare a tutti quelli che non avevano cognizione della lingua italiana, che io pure occupava un posto fra gli autori drammatici; e comprendevo che era d’uopo o riuscir bene nell’impresa, o non mescolarvisi. Mi provai a tradurre qualche scena del mio teatro; ma le traduzioni non mi sono mai piaciute, ed il lavoro stesso parevami insipido senza il diletto della immaginazione. Erano già venute da me parecchie persone per ottenere l’assenso di tradurre le mie commedie sotto i miei propri occhi, dietro i miei suggerimenti, e colla condizione di mettermi a parte del guadagno. Dal giorno del mio arrivo in Francia fino al presente, non è passato anno, che uno, due, o più traduttori non siano venuti a farmi l’istessa proposizione. Ne trovai persino uno che voleva il privilegio esclusivo di tradurmi, ed aveva pubblicato di recente alcune sue traduzioni. Procurai di distorli tutti in egual modo da un’impresa, della quale non conoscevano le difficoltà. Il Teatro di un incognito, volume in 12, tipografia Duchesne, 1765, contiene tre commedie. La prima ha per titolo La serva generosa, commedia di cinque atti in versi ad imitazione della Serva amorosa del Goldoni. La seconda, altro non è che una traduzione letterale della medesima commedia in prosa. La terza ed ultima, porta il titolo dei Malcontenti, che è appunto quel medesimo da me dato alla commedia italiana, della quale ho già reso conto nella seconda parte delle presenti Memorie. Non saprei peraltro dire, se un Francese potesse leggere queste traduzioni da capo a fondo. In fronte di questo volume vi è una lettera indirizzata ad una signora che ne sapeva più dell’autore incognito: essa infatti si divertì a tradurre il mio Avvocato Veneziano, e in questo difficile e penoso lavoro n’uscì assai meglio di tutti gli altri. È bensì vero, che non fece stampare se non i soli due primi atti della sua traduzione: dimodo che quest’opera così imperfetta non avrebbe certamente veduto la luce, se il marito, geloso della gloria di sua moglie, non l’avesse mandata alla stampa malgrado la contrarietà di lei. Ho veduto anche una traduzione assai ben fatta del mio Servo di due padroni: un giovine che possedeva sufficientemente la lingua italiana, aveva con molta esattezza tradotto il senso, ma non eravi però punto calore, non eravi punto vis comica, ed oltre a ciò tutte le lepidezze italiane diventavano in francese tante goffaggini. Nel 1783 comparve un libro intitolato Scelta delle migliori commedie del Teatro italiano moderno, tradotte in francese, con dissertazioni e note, stampato dal Morin all’insegna della Verità. Per quello che sembra, l’autore diffidò egli stesso della sua intrapresa, poichè in quest’opera, che doveva certamente essere molto voluminosa, tralasciò nel frontispizio l’intitolazione di Tomo primo. Oltre di ciò nel suo discorso preliminare getta la proposizione che gli autori drammatici italiani sono oggigiorno in stato di sostener la lotta con gli autori francesi, cosa difficilissima a provarsi. Presenta anche una dissertazione intorno alle commedie di un moderno autore italiano, che non ha fatto altro che copiare gli antichi; e finalmente incomincia la scelta delle sue traduzioni da una mia commedia. Benchè questa preferenza mi facesse molto onore, non ostante mi trovo ora costretto a dire quello che non risparmiai al traduttore medesimo, ciò è che egli aveva scelto male: di fatto, se dalla sopraccennata commedia si dovesse formare un giudizio di me, non sarebbe possibile concepirne un’idea vantaggiosa. Il traduttore pretende di collocarmi fra i rivali dei Francesi in Italia con La Donna di garbo; e questa appunto è una delle più deboli mie commedie, che nella sua sostanza molto risente del solito maraviglioso dell’antico Teatro italiano. Essa infatti è tra le mie composizioni una di quelle in cui trovasi meno di brio, meno di correzione, meno di verisimiglianza; una commedia insomma, che in Italia aveva avuto molto incontro, ma, che poi in sostanza altro non faceva che mordere leggermente il cattivo gusto, ed annunziare la riforma disegnata. L’autore della scelta delle commedie italiane sbagliò perfino nella traduzione del titolo: poichè esso non significa, nè la Docte intrigante, nè la Femme accorte, come leggesi nella sua traduzione. Una donna di garbo, in italiano equivale a Une brave femme in francese; ed appunto sotto questo titolo io l’ho presentata, e ne resi conto nella seconda parte di queste Memorie. È vero che la principale attrice di questa commedia è donna scaltra ed intrigante, ma agli occhi dei personaggi della commedia comparisce poi Une brave femme, ed è a motivo di quest’apparenza che gli assegnai, per una specie d’ironia, il titolo di donna di garbo. Avrei piuttosto perdonato volentieri al traduttore l’annunzio, che i suoi due titoli erano correttivi del mio; ed avrei anche gradito, che nella sua traduzione egli si fosse presa maggior libertà, affine di porla in grado di esser letta, e renderla sopportabile in francese; ma, per aver voluto appunto tradurre il testo parola per parola, è caduto nell’inconveniente di una elocuzione insipida e triviale. Quest’opera per altro non è stata, nè poteva essere continuata. Infatti non è possibile di far altrui conoscer il genio della letteratura straniera, se non per mezzo dei pensieri, della immagini, dell’erudizione; ma conviene adattare le frasi e lo stile al genio della nazione per cui si vuole tradurre.
Le lezioni che potevo dare agli altri, le rivolgevo in séguito a me medesimo. No, non bisogna tradurre, convien creare, immaginare, inventare. Benchè non fossi ancora in grado di tentare una commedia in francese, mi ci potevo bensì provare, progredendo in qualche maniera a tastoni. Andavo dunque in traccia di soggetti, che potessero somministrarmi qualche novità: credetti un giorno di averne trovato uno, ma m’ingannai. Fui una volta invitato a pranzo in casa di una signora amabilissima, il cui contegno domestico per altro era misterioso: ci vo dunque a due ore, e trovo la signora vicino al fuoco in compagnia di un tal signore con lunghi capelli, e che non era nè consigliere al Parlamento, nè al Châtalet, nè alla Corte dei sussidii, nè a quella dei conti, nè referendario, nè avvocato, nè procuratore. La signora mi presenta al signore, e gli fa noto il mio nome. Il signore fa l’atto di volersi alzare dal suo posto: lo prego, come vuole la convenienza, di non darsi veruno incomodo; ed egli senza farsi pregare di più resta sulla seggiola. Vo’ render conto della nostra conversazione; e per evitar l’egli dice, ella dice, stenderò un dialoghetto tra il signore, la signora e me.
Signora. Signore, voi dovete conoscere per fama il signor Goldoni.
Signore. Non è questi un autore italiano?
Signora. Appunto: egli è il Mollière dell’Italia. (Conviene condonare tale esagerazione ad una garbata signora).
Signore. Oh questa sì ch’è particolare! Il signore dunque si chiama anche Molière?
Signora (ridendo). Ma non vi ho pur detto, ch’egli è il signor Goldoni?
Signore. Ebbene, signora, che c’è da ridere? l’autore francese si chiamava pure Poquelin de Molière! Perchè dunque un italiano non potrebbe chiamarsi Goldoni di Molière? (volgendosi verso me). La signora ha molto acume; ma è donna, e vuol sempre aver ragione, ma io la correggerò.
Signora (con aria brusca). Eh... via... via... quietatevi.
Signore (alla Signora). Voi siete amabile, siete ammirabile, siete divina, (volgendosi di nuovo verso di me) Signore, voi siete autore, e siete italiano, vi sarà dunque nota una commedia italiana... una commedia... che io ho sulla punta della lingua: ella è... ella è... mi è fuggito dalla memoria il titolo... ma non importa. È in somma una commedia, che ha il Pantalone... l’Arlecchino, il Dottore, il Brighella. Oh! ora poi dovete indubitamente sapere che commedia sia.
Io. Veramente, se vossignoria non ha da favorirmi altri riscontri.
Signora. Signori, è in ordine; andiamo a pranzo. (Il signore dà di braccio alla signora, ma ella prende il mio).
Signore. E che? Voi dunque, signora, mi rifiutate? eppure io non vi adoro meno degli altri. (Entrati a tavola, il signore prende posto accanto alla Signora, e s’impossessa subito del cucchiaione).
Signore. Come, signora, voi date zuppa a un italiano?
Signora. Oh bella! e che cosa dunque, secondo voi, bisognava dargli?
Signore (scodellando la zuppa). Maccheroni, maccheroni: gl’Italiani non mangiano altro che maccheroni.
Signora. Ma voi siete singolare, signor della Clo...
Signore (alla Signora). Zitta...
Signora (un poco irata). Come sarebbe a dire, signore? Voi siete questa mattina molto incivile.
Signore. Zitta, dico, mia bella; zitta, mia cara, mia adorabile.
Io. Ma non sarebbe permesso di sapere il nome della persona con la quale ho l’onore di pranzare?
Signore (a me). Signor mio, non è possibile, io sono qui incognito.
Signora. Che cosa dite voi d’incognito, signor della Cloche? credete forse stando qui, di essere ad un albergo, ovvero in luogo di cattiva fama? In casa mia si viene onoratamente al pari che in qual si voglia altro luogo; e questa sarà assolutamente l’ultima volta che voi ci metterete piede. —
Per vero dire, la signora era oltre modo educata e sensitiva; ma per sua disgrazia aveva qualche cosa da rimproverarsi; onde, credutasi offesa dalla proposizione del giovine scimunito, prorompe in dirotto pianto, e le vien male. Accorre subito la cameriera, e la conduce in camera; il signore vuol seguirla, ma gli è chiuso l’uscio in faccia. In questo scompiglio io mi alzo da tavola; e siccome faceva freddo, vado a scaldarmi nella sala contigua. Il signore, punto anch’esso quanto la signora, passeggiava da un capo all’altro della stanza, andando di tempo in tempo a gettarsi sul sofà, sulle sedie, sugli sgabelletti. Che peccato, veder guastare colla sua lunga capigliatura quei mobili elegantissimi! Non sapendo a qual partito appigliarmi, nè avendo desinato, rivolgo il discorso al signore per sapere solamente se egli contava di restare. — Voi altri Italiani (egli soggiunse) siete veramente felici; le donne del vostro paese vi sono schiave; ma qui siam noi che le guastiamo, e ci facciam torto coll’adularle e secondarle. — Signore (io gli risposi), in Italia le donne si rispettano in egual modo che in Francia, specialmente poi quando sono amabili come questa. — Ma... ella è in collera... ne sento rammarico, sono nella massima agitazione. — Eh! non è niente, non è niente (egli riprese); voi la vedrete ritornar da noi quanto prima. Ciò detto, va immediatamente all’uscio della camera, picchia, grida, l’uscio si apre, ed ecco fuori la cameriera. — La mia padrona (ella dice) è a letto; per oggi non vedrà più alcuno. — Indi chiude nuovamente l’uscio, ed urta la mano dell’uomo d’importanza che voleva entrare. Egli batte co’ piedi, e minaccia; poi rivoltosi a me: Andiamo, (mi disse) andiamo a pranzo in qualche luogo. — A dire il vero, ne avevo bisogno quanto lui. Usciamo adunque insieme, attraversiamo il Palazzo Reale, ed il signore vede due signorine passeggiare nei boschetti, onde gli vien voglia di seguitarle, e m’obbliga a non lasciarlo. Io ricuso, ma egli sempre le séguita da sè solo, dimodochè mi pianta là come un palo. Vo allora subito a pranzo dallo Svizzero, contentissimo, di essermene liberato. Non mancai di prender memoria di quest’originale sul mio libretto dei ricordi, non già col fine di rappresentarlo sul teatro, ma per l’unico piacere di riempir qualche vuoto in conversazione.