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capitolo ix 291


sempre rincrescimento degli amici che vi ho lasciato, che sempre amo ed amerò finche io vivo. In questa occasione avrei piacere di nominarli, per dar loro una prova della mia memoria, della mia stima e della mia riconoscenza; ma la difficoltà è, che i medesimi sono in troppo gran numero, e poi sembrerebbe anche che io volessi per vanità farmi bello di tutti questi nomi rispettabili.

CAPITOLO X.

Mio ritorno a Parigi. — Nuova società letteraria. — Difficoltà delle traduzioni. — Alcune mie opere tradotte in francese. — Teatro di un incognito. — Traduzione del mio Avvocato veneziano. — Quella del Servo di due padroni. — Scelta delle migliori commedie italiane. — Qualche parola sopra quest’opera. — Dialogo fra una dama, un signore, e me.

Tornai a stabilirmi a Parigi, ma per altro tenni sempre un quartierino a Versailles. Troppo mi premeva di star presso le mie auguste protettrici, e vedere se la lingua e la letteratura italiana avessero mai acquisto un discepolo fra i giovani principi e le principesse. Lo studio delle lingue straniere nella corte di Francia non è riguardato come studio, ma come semplice divertimento, permesso a chi lo richiede e chi trova in grado di profittarne. Uno solo fra i tre principi pareva disposto ad imparar l’italiano, incombenza che fu data al signor abate di Landoviller dell’Accademia francese. In questa occorrenza egli mise in pratica il suo Metodo d’imparare le lingue stampato nel 1768; vi riuscì a maraviglia, e il principe fece progressi mirabili. Ero senza impiego e senza occupazione: nulla avendo concluso nei primi tre anni d’impiego alla corte, cercavo la opportunità di impiegare utilmente il mio tempo. Il signor de la Place ed il signor Favart, due membri della nostra antica Domenicale, mi proposero una nuova società letteraria. Consisteva questa in un crocchio, che univasi a bocca e borsa all’insegna della Spada di legno, dirimpetto alle gallerie del Louvre; ivi si adunavano una volta la settimana. Il trattamento era buonissimo, amabile la comcompagnia, utili le conversazioni. Ecco qui i nomi dei commensali: M. de la Place, M. Coquelet de Chaussepierre, M. de Veselle, M. Laujon, M. Louis, M. Dorat, M. Colardeau, M. du Doyez, M. Barthe, Vernet, ed io. Di lì a poco anche il signor conte di Coigny volle onorare personalmente i nostri pranzi ed accrescere il diletto delle nostre conversazioni; con tuttociò le nostre adunanze non ebbero lunga durata. Era solennemente proibito introdur persona senza il consenso universale della società. Avvenne che uno dei soci si prese l’arbitrio di condurvi un suo amico, il quale non era di comune piacere; poichè, quantunque uomo di merito, pure egli era autore di un foglio periodico, col quale avea recato dispiacere a qualcheduno della società, onde la nostra assemblea andò a finire come la Domenicale. Ne fui dolentissimo, poichè erami vantaggioso convivere con persone che sapevano perfettamente la loro lingua. Infatti fin d’allora avevo in mira di comporre qualche cosa in francese, volendo con questo saggio provare a tutti quelli che non avevano cognizione della lingua italiana, che io pure occupava un posto fra gli autori drammatici; e comprendevo che era d’uopo o riuscir bene nell’impresa, o non mescolarvisi. Mi provai a tradurre qualche scena del mio teatro; ma le traduzioni non mi sono mai