Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - XXIV Parte seconda - XXVI

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CAPITOLO XXV.

Altri lamenti dei Bolognesi contro la mia riforma. — Terenzio, commedia di cinque atti, e in versi. — Suo estratto. — Suo magnifico successo.

Avevo già perdonate ai partigiani delle commedie con le maschere le lagnanze che mi avevano fatte, per essere eglino dilettanti abilissimi, che avevano il merito di rendere da lor medesimi piacevoli le commedie a braccia. Quello però che più d’ogni altro mi pungeva, erano le grida di vendetta dirette contro di me da personaggi di qualità, per la ragione che aveva messo in ridicolo i cicisbei senza il menomo riguardo alla nobiltà.

Veramente non mi sentivo di fare su questo proposito le mie scuse, e molto meno di correggermi, ma facevo troppo conto dei suffragi dei Bolognesi per non cercare di convertire i mal contenti, e rendermi meritevole della loro stima. Immaginai una commedia, il cui argomento era appunto degno di un paese ove generalmente fiorivano le arti, le scienze e la letteratura più che in qualunque altro luogo. Presi per soggetto della commedia Terenzio l’affricano, nel modo stesso che pochi anni avanti avevo fatto del Terenzio francese. È questa una delle mie commedie favorite; mi costò molta pena, mi procurò molta contentezza, e meritò l’elogio universale dei Bolognesi; potrei io dunque negarle la preferenza? Rendo ora conto di questa figlia a me cara; e per farla meglio conoscere, comincio dal trascrivere la seguente lista di personaggi:

Il Prologo, Lucano senatore, Livia figlia adottiva di Lucano, Lelio patrizio, Publio pretore di Roma, Terenzio affricano schiavo di [p. 213 modifica] Lucano, Creusa giovine greca schiava di Lucano, Critone ateniese nonno di Creusa, Fabio adulatore aderente di Lucano, Lisca parasito, Damone eunuco schiavo di Lucano. Un segretario, sei littori di seguito al pretore, clienti di Lucano, seguito di Lucano, seguito del pretore. La scena si finge in una stanza del palazzo di Lucano.

Un personaggio calzato col coturno si presenta solo sulla scena, si annunzia per il Prologo, ed arringa il pubblico intorno alla commedia che è per rappresentarsi. Dà alcune notizie preliminari per la più facile intelligenza di una composizione, che per l’epoca di due mila anni si discosta dai nostri usi e costumi, e tien discorso delle azioni principali, degli episodi, dei caratteri, della critica e della morale della commedia. «Voi direte, o signori, (prosegue sempre il Prologo), che la commedia deve aggirarsi sopra i nostri costumi, i nostri vizi, le nostre ridicolezze, ed avete ben ragione; ma possiamo però talvolta valerci benissimo dei morti, affine di correggere i vivi; infatti voi vedrete sfacciato l’adulatore, indiscreto il parasito, insolente l’eunuco; tutti questi sono originali presi dall’antichità, ma per altro se ne incontrano copie moltiplici e somigliantissime nel nostro secolo». Discorre in seguito il Prologo sul carattere di Livia, che, vinta dal merito di Terenzio, fa inutili sforzi per sostenere l’orgoglio delle eroine romane. «Gli autori tragici esaltarono, egli dice, quella fierezza che è spinta fino al fanatismo, laddove all’opposto il nostro autore ne ha ricavato dalla medesima le arguzie più vive». Finalmente il Prologo termina il suo discorso con dimandare al pubblico un benigno compatimento in nome dell’autore.

Atto I. — Apre la scena Lucano seguito da Damone eunuco e suo schiavo. Questi si lagna col padrone, che le faccende più grossolane e faticose vadano tutte a pesare unicamente sulle sue spalle, e che Terenzio, schiavo al pari di lui, a null’altro sia riserbato, se non se a far ridere il pubblico. Aggiunge anche a tali lagnanze, che questo sfacciato satirico, chiamato poeta, ha avuto l’ardire di burlarsi di lui nella commedia intitolata L’Eunuco, e che perciò dimanda una riparazione di onore; dopo la qual ciarlata avverte Lucano, esservi nell’anticamera Lelio, che desidera parlargli: a quest’avviso Lucano va in furia contro lo schiavo perchè fa aspettare l’amico di Scipione; e Damone parte. L’oggetto per cui vien Lelio, è di complimentare Lucano relativamente ai fortunati successi di Terenzio ed aggiunge alle proprie congratulazioni quelle ancora di Scipione il giovine, chiedendo in nome di quest’eroe, e per parte degli Edili la libertà di questo schiavo africano, meritevole degli onori e dei diritti della cittadinanza romana. Lucano promette la liberazione di Terenzio: ma oltre alla medesima Lelio domanda in nome dell’autore comico il permesso di sposar Creusa, giovine greca. Lucano ama svisceratamente la sua schiava, onde Terenzio può sperare di godere la sua libertà, a condizione però di rinunziar per sempre agli amori di Creusa. Lelio informa Terenzio della volontà del padrone, ma l’amante poeta è pronto a rinunziare piuttosto a tutti gli onori in grazia dell’amore. Allora Lelio gli parla e da filosofo e da amico; ma Terenzio vede venir Creusa e la bellezza di questa avvenente schiava basta a scusarlo, sicchè Lelio confessa tacitamente che Terenzio ha ragione, e se ne va. Creusa, poi sembra inquieta, sbigottita: Lucano, ella dice, l’ha riguardato con aria minaccevole, ed oltre a ciò sente da Terenzio, che la reciproca loro passione non è più un mistero; teme dunque lo sdegno di un padrone a cui essa ha avuto la disgrazia di piacere; [p. 214 modifica] la morte non la spaventa; ma, dovendo morire, vorrebbe morir moglie di Terenzio. Egli le mette sottocchio tutti gli ostacoli che si oppongono al loro nodo, ed ella perciò dimanda di essere sposata da lui occultamente; ma Terenzio non potrebbe in modo alcuno far forza alla sua passione e nasconderla quando avesse sposata Creusa: onde da questo rifiuto essa trae motivo di temere quel che ha sempre sospettato, cioè, che Livia lasci trasparire la sua inclinazione per Terenzio, e che Terenzio possa restarne sedotto; egli però da sincero e affettuoso amante, rassicura della propria fedeltà. In questo istante son sorpresi da Livia, che rimanda Creusa bruscamente. La scena che segue fra Livia e Terenzio, è veramente comica; in essa il poeta si prende giuoco dell’orgoglio della dama romana nella maniera più decente ed artificiosa. Egli la pone nel maggiore impaccio, e la lascia qual uomo che ha per lei rispetto ed ammirazione..., e non ardisce dir altro; ella soffre il contrasto dell’amore e della fierezza, e termina con dire: «Sì: voglio che Terenzio sia mio, ma sempre in catene; e quando non possa pubblicamente godere la corrispondenza del cuore di lui, impedirò fin che vivo, che una rivale ne vanti il possesso. Sia l’amore, l’invidia, o l’orgoglio, che a ciò mi guidino, son donna, son Romana, ed ecco bastanti ragioni per sostenere i miei diritti».

Atto II. — Fabio l’adulatore e Lisca parasito vengono entrambi a far la loro corte a Lucano: il primo per giungere, col mezzo della protezione di lui, a qualche posto lucroso, e l’altro per mantenersi sempre il privilegio di essere ammesso alla tavola di lui. Vengo, dice l’adulatore, a tributare incenso alla vanità di un senatore romano, superbo di comparire nel Campidoglio con un numeroso seguito di fautori e di clienti; ed io vengo, ripiglia il parasito, per spartire con l’oppressore del popolo le spoglie degli oppressi. Il loro dialogo va finalmente a cadere sopra Terenzio. Egli è un uomo, al parer loro, molto felice; senza però alcun merito e ingegno: che ha copiato Menandro, e che di due commedie dell’autore greco, ne ha fatta una all’uso romano. Comparisce intanto Lucano: ecco in abbondanza elogi da tutte le parti, è chiamato il padre del popolo, la gloria del Senato, e Terenzio l’onor di Roma: in tal guisa questi maligni soggetti parton contentissimi per aver veduto sorridere dalla compiacenza uno di quei padri conscritti che tremar facevano l’universo. Lucano fa venir Creusa, e le parla qual padrone e quale amante: essa rispetta la sua catena, e chiede solo la libertà del suo cuore. Non potendo egli forzarla ad amarlo, dimanda che gli si conceda almeno la speranza: Ingannami, ei le dice, ma concedimi le tue grazie. Creusa però è abbastanza coraggiosa per gloriarsi di sincerità. In questo mentre Damone annunzia a Lucano, che il Senato lo chiama, ond’egli parte in quell’istesso istante: l’eunuco allora profitta di quel momento per ischerzare goffamente con Creusa, ma essa lo disprezza, e segue fra loro una piccola altercazione. Creusa gli dice: Sei un perfido; ed egli le risponde: E tu una Greca; lo chiama malvagio, ed egli replica. E tu una Greca, aggiunge il titolo di scellerato, ed egli sempre: E tu una Greca. Irritata pertanto Creusa da una tal pertinace ripetizione, gli domanda quello che intende dire con quella parola Greca. Questo vocabolo, risponde Damone, racchiude in sè tutto quanto il male che mai dir si possa a una creatura umana. Giunge in quel mentre Livia, comanda allo schiavo di partire, e dà a Creusa un disegno da ricamare, per farne un arazzo, severamente ordinandole di non escire di camera sino a che non sia ultimato il lavoro. [p. 215 modifica] Creusa esamina il disegno, e vi ravvisa la propria figura, quella di Terenzio e di Lucano unitamente ad un littore, che armato di verghe minaccia i due schiavi; in aria maliziosa domanda Livia a Creusa, se è contenta del quadro, ed essa risponde senza scomporsi, che per renderlo del tutto perfetto vi mancava soltanto una terza figura, figura muliebre in abito da Romana che solleciti il castigo dei due disgraziati innocenti. Ecco Terenzio: il disegno continua sempre ad avere luogo nella scena, e il poeta comico di tutto profitta per burlarsi di Livia, ed incoraggiare la giovine greca a disprezzare le minacce della loro nemica. Sopraggiunge Lelio, ed affretta Terenzio perchè vada a comparire al Campidoglio, ove il Senato ed il popolo romano lo invitano: Terenzio dunque nel partire usa termini che lusingano la credulità della orgogliosa Romana, e vie più assicurano la giovine schiava.

Atto III. — Damone, invidioso sempre, e sempre nemico di Terenzio, consulta Lisca riguardo ai mezzi onde far pago il suo odio. Il parasito gli dice, che per umiliare Terenzio altro non ci vorrebbe se non se una commedia alla maniera di Plauto: ma Damone non conosce nè Plauto nè le commedie di lui. Il mio oggetto in questa scena era di dare un’idea succinta di questo autore che avea preceduto Terenzio: Lisca ne dice tanto, che basta per istruzione di chi non legge. Dopo di che prende l’impegno di agire in favore di Damone, col patto però che gli regali alcuni fagiani, allora molto rari, e che venir si facevano dalla Grecia. Arriva Fabio, e partecipa a Lisca e Damone la fortuna di Terenzio, a cui gli Edili avevano giudicato in pieno Senato una gratificazione di centomila nummi (cioè cinquantamila lire) in ricompensa della sua commedia intitolata l’Eunuco; tutti e tre di accordo strepitano fieramente contro l’ingiustizia dei Romani, ma sopraggiunto Terenzio, è da loro ricolmato di elogi e complimenti; il poeta però, che ben gli conosce, gli disprezza e gli lascia; onde Fabio e Lisca, per vendicarsene, l’accusano avanti a Lucano di avere spinta la sua audacia fino al punto di pretendere il cuore di Livia. Lucano non ne sembra dolente. Terenzio, egli risponde, è per divenire a momenti cittadino romano, e questo titolo gli dà il diritto di pretendere gli onori della repubblica; il suo ingegno poi e la sua reputazione lo debbono certamente mettere in grado di aspirare alle parentele più rispettabili, confessando inoltre, che la brama che egli ha di allontanare Terenzio da Creusa è anche più forte della stima che egli ha per quest’uomo celebre. Intanto fa venire a sè la figlia, e qui pure havvi una scena del genere appunto di quelle di Terenzio. Livia in faccia al padre sostien l’orgoglio del suo sesso e della sua nascita, e dimostra di ben conoscere la distanza immensa che corre fra lei e Terenzio; onde Lucano non vuol forzarla, e la lascia in piena libertà sulla scelta dello sposo. Livia però vanta fra le sue virtù una cieca sommissione ai voleri del genitore, e siccome lo vede indeciso su tal punto, termina con pregarlo di porgerle una occasione di dare al pubblico un attestato della sua obbedienza. Allora Lucano è pieno della speranza che Terenzio non voglia ricusar l’onore di essergli genero; qui segue una scena nella quale parlando ambedue di amore, di matrimonio, di sacrifizio, di riconoscenza, senza mai nominar la persona di cui ciascuno pur troppo crede che si tratti, l’equivoco viene a sostenersi fino al termine con somma naturalezza, di modo che Terenzio non rileva l’errore se non se all’arrivo di Creusa. Irritato Lucano dalla resistenza della giovine greca, le dà l’annunzio, che Terenzio è a momenti per [p. 216 modifica] mutare stato, che deve sposar Livia, e che per una greca, e per una schiava altro a lui non resta se non disprezzo: indirizza il discorso a Terenzio perchè confermi egli stesso tal verità, onde il poeta trovasi in impaccio, ma se ne sbriga ben presto dicendo in un senso equivoco: che bisogna rispettare tutto ciò che vien dalla bocca di un senatore romano.

Atto IV. — Terenzio in mezzo agli onori e alle ricompense ond’è ricolmato, non può godere a pieno la sua felicità, quando non divida i favori della sorte con l’arbitra del suo cuore. Damone intanto annunzia al poeta un Greco di barba grigia che parlar vorrebbe a Lucano. Terenzio, a cui è nota la Grecia, avrebbe caro di vederlo, onde Damone esce ed introduce l’Ateniese. Critone entrando si lagna del disprezzo dei Romani verso i forestieri, ma Terenzio guadagna la confidenza di questo vecchio, dichiarandosi a lui per schiavo ed Africano, e molto più presto l’ottiene, allorchè Critone riconosce in Terenzio quell’autore, per cui rivive fra i Romani il nome e la gloria del poeta Menandro. Di discorso in discorso il vecchio si manifesta per avo di Creusa: Terenzio prova un piacere sommo per tale incontro, ed interroga subito il Greco sopra il suo stato, i suoi avvenimenti e le sue intenzioni.

Critone fa il racconto delle proprie disgrazie, unendovi quelle di Creusa, dicendo essere ella stata venduta a Lucano da un mercante di schiavi chiamato Lisandro di Tracia, per la somma di due mila sesterzi, col patto però di renderla al prezzo stesso non ad altri che a chi gliela aveva già venduta. Il mercante di Tracia era morto, e Critone, che tutto aveva perduto nel naufragio da cui era poco fa scampato, salvato avea per sorte detto contratto, firmato di proprio pugno da Lucano medesimo. Terenzio offre il prezzo del riscatto di Creusa, impegna il Greco a rappresentare il personaggio di Lisandro; tanto più che entrambi esser debbono a un dipresso dell’età stessa, potendo la barba e il gergo straniero molto imporre, e senza alcuna difficoltà, sull’altrui credenza. Tutta la diversità consisteva nell’esser Critone robusto, e molto diritto, laddove il Trace, al dir del Greco, era curvo e malconcio; si prova Terenzio a farlo star curvo, ma egli ci riesce malamente, molto soffre; ed ha sospetto, che l’autor comico non voglia fare di lui un personaggio da commedia. In questo mentre Terenzio vede venir Lucano, onde fa piegare il vecchio suo malgrado e lo presenta al padrone: la scena che succede è piacevole e sommamente comica; in essa Terenzio espone a Lucano la dimanda del mercante di schiavi, e gli fa vedere il contratto firmato da lui stesso: in tale caso non può Lucano, senza commettere un’ingiustizia, ricusare la restituzione della giovine greca. Dolendogli però di privarsene, fa al vecchio molte domande, mentre egli soffre infinitamente stando sì lungo tempo in quella positura. Terenzio non lascia di farlo star curvo di più: dopo di che essendosi burlato il poeta comico tanto di Lucano, quanto di Critone, esce per andare a ricevere in nome del padrone il prezzo del riscatto di Creusa, conducendo seco il Greco estremamente affaticato. Lucano non risente ancora dispiacere di aver dato la libertà a Creusa, poichè, se i genitori la reclamano, egli spera di vincerli, proponendosi di ricolmarli di benefizi, e di maritar Creusa a qualcuno de’ suoi favoriti. Così ella non escirebbe di Roma, ed egli sempre l’avrebbe presso di sè.

Atto V. — Damone alla testa degli schiavi del suo padrone fa disporre le sedie per il pretore romano e per la gente del seguito di lui, che sono per adunarsi in casa di Lucano per la cerimonia [p. 217 modifica] della manomissione dì Terenzio. Mentre escon gli schiavi da una parte, Creusa entra dall’altra: ella è già libera, e sa benissimo che Terenzio ha molto contribuito alla felicità di lei, onde se prima lo amava per inclinazione, aggiunge ora all’amore la riconoscenza. Sopraggiunge Livia, e domanda a Creusa se la voce che corre a riguardo di lei ha fondamento, e se è vero che ella sia per godere a momenti la sua libertà; la Greca le risponde in modo da sconcertare l’orgoglio d’una Romana, la scena è pungente, e resta interrotta da Damone che avvisa Creusa, che Lucano la dimanda. Alla sesta scena comparisce il pretore romano preceduto da timpani ed istrumenti a fiato, da’ suoi littori e da uno scriba. Da un’altra parte entrano Lucano e Terenzio, seguitati da Lelio, da Fabio e da un numero di favoriti ed amici. Prende ognuno il suo posto, indi segue la ceremonia della manomissione nella maniera allora in uso che si può vedere nell’originale della mia commedia stampata, e che io ho descritta seguendo l’istoria.

Terenzio fa il suo ringraziamento da filosofo e poeta, dopo il quale il Pretore esce con tutto il suo seguito. Sul finir della commedia si tratta degli amori di Terenzio e Creusa; Lucano finalmente cede ogni sua pretensione, e fa in favore della Greca già libera il completo sacrifizio del suo affetto; Livia nasconde sempre il suo livore sotto l’apparenza di un forzato eroismo, e in questa guisa Terenzio gode appieno il frutto del suo merito e talento. Se qualche autore francese crede degna della sua attenzione questa commedia, troverà in cattivi versi materia bastante per farne dei buoni.