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capitolo xxv | 215 |
Creusa esamina il disegno, e vi ravvisa la propria figura, quella di Terenzio e di Lucano unitamente ad un littore, che armato di verghe minaccia i due schiavi; in aria maliziosa domanda Livia a Creusa, se è contenta del quadro, ed essa risponde senza scomporsi, che per renderlo del tutto perfetto vi mancava soltanto una terza figura, figura muliebre in abito da Romana che solleciti il castigo dei due disgraziati innocenti. Ecco Terenzio: il disegno continua sempre ad avere luogo nella scena, e il poeta comico di tutto profitta per burlarsi di Livia, ed incoraggiare la giovine greca a disprezzare le minacce della loro nemica. Sopraggiunge Lelio, ed affretta Terenzio perchè vada a comparire al Campidoglio, ove il Senato ed il popolo romano lo invitano: Terenzio dunque nel partire usa termini che lusingano la credulità della orgogliosa Romana, e vie più assicurano la giovine schiava.
Atto III. — Damone, invidioso sempre, e sempre nemico di Terenzio, consulta Lisca riguardo ai mezzi onde far pago il suo odio. Il parasito gli dice, che per umiliare Terenzio altro non ci vorrebbe se non se una commedia alla maniera di Plauto: ma Damone non conosce nè Plauto nè le commedie di lui. Il mio oggetto in questa scena era di dare un’idea succinta di questo autore che avea preceduto Terenzio: Lisca ne dice tanto, che basta per istruzione di chi non legge. Dopo di che prende l’impegno di agire in favore di Damone, col patto però che gli regali alcuni fagiani, allora molto rari, e che venir si facevano dalla Grecia. Arriva Fabio, e partecipa a Lisca e Damone la fortuna di Terenzio, a cui gli Edili avevano giudicato in pieno Senato una gratificazione di centomila nummi (cioè cinquantamila lire) in ricompensa della sua commedia intitolata l’Eunuco; tutti e tre di accordo strepitano fieramente contro l’ingiustizia dei Romani, ma sopraggiunto Terenzio, è da loro ricolmato di elogi e complimenti; il poeta però, che ben gli conosce, gli disprezza e gli lascia; onde Fabio e Lisca, per vendicarsene, l’accusano avanti a Lucano di avere spinta la sua audacia fino al punto di pretendere il cuore di Livia. Lucano non ne sembra dolente. Terenzio, egli risponde, è per divenire a momenti cittadino romano, e questo titolo gli dà il diritto di pretendere gli onori della repubblica; il suo ingegno poi e la sua reputazione lo debbono certamente mettere in grado di aspirare alle parentele più rispettabili, confessando inoltre, che la brama che egli ha di allontanare Terenzio da Creusa è anche più forte della stima che egli ha per quest’uomo celebre. Intanto fa venire a sè la figlia, e qui pure havvi una scena del genere appunto di quelle di Terenzio. Livia in faccia al padre sostien l’orgoglio del suo sesso e della sua nascita, e dimostra di ben conoscere la distanza immensa che corre fra lei e Terenzio; onde Lucano non vuol forzarla, e la lascia in piena libertà sulla scelta dello sposo. Livia però vanta fra le sue virtù una cieca sommissione ai voleri del genitore, e siccome lo vede indeciso su tal punto, termina con pregarlo di porgerle una occasione di dare al pubblico un attestato della sua obbedienza. Allora Lucano è pieno della speranza che Terenzio non voglia ricusar l’onore di essergli genero; qui segue una scena nella quale parlando ambedue di amore, di matrimonio, di sacrifizio, di riconoscenza, senza mai nominar la persona di cui ciascuno pur troppo crede che si tratti, l’equivoco viene a sostenersi fino al termine con somma naturalezza, di modo che Terenzio non rileva l’errore se non se all’arrivo di Creusa. Irritato Lucano dalla resistenza della giovine greca, le dà l’annunzio, che Terenzio è a momenti per