Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXIV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - XXIII Parte seconda - XXV

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CAPITOLO XXIV.

Nuova edizione delle mie Opere sotto il titolo: Nuovo teatro del signor Goldoni. — Mio viaggio a Bologna. — Dispiacevole avventura al ponte Lago-scuro. — Generosità di un ministro della dogana. — Lamenti dei Bolognesi riguardo alla mia riforma. — Osservazioni sopra le quattro maschere della commedia italiana e sulle commedie a braccia.

In mezzo alle giornaliere mie occupazioni non perdetti di vista la stampa delle mie opere: e siccome nella mia edizione di Firenze avevo pubblicato le commedie solamente da me composte per i teatri S. Samuele e Sant’Angelo, cominciai a mandare alle stampe anche le produzioni fatte ne’ primi due anni del mio nuovo impegno con quello di San Luca. Il libraio Pitteri di Venezia s’incaricò di ultimare a proprio conto questa edizione in ottavo, distinta col titolo di Nuovo Teatro del signor Goldoni, onde somministrati materiali sufficienti per un lavoro di sei mesi, andai ad unirmi a’ miei comici partiti già per Bologna ad oggetto di passarvi la primavera.

Giunto al ponte di Lago-scuro, una lega lontano da Ferrara, ove pagasi il dazio della dogana, mi dimenticai di far visitare il baule; per tal ragione escito appena dal borgo venni arrestato. Avevo una provvisioncella di cioccolata, caffè e candele di cera, cose tutte di contrabbando, e che perciò dovevano essere confiscate. Vi era una multa considerevole da pagarsi, e negli Stati della Chiesa i pubblicani non sono punto condiscendenti. Il ministro della dogana colla sua sbirreria trova, frugando nel mio baule, alcuni volumi delle mie commedie, e ne fa di esse l’elogio; erano appunto la sua delizia, e le recitava egli stesso nella sua conversazione; mi do adunque a conoscere, ed il ministro, incantato, maravigliato e [p. 210 modifica] vinto dalle mie maniere, mi fa sperar tutto. Se fosse stato solo, mi avrebbe anche lasciato partire nel momento medesimo; ma le guardie non avrebbero mai aderito di perdere i loro diritti. Ordina pertanto che si ricarichi il baule, e mi fa ritornare alla dogana del Ponte. Il direttore delle gabelle non vi era, onde il mio protettore andò a cercarlo egli medesimo a Ferrara; ritornò in capo a tre ore, e portò seco l’ordine della mia libertà, mediante lo sborso di poco danaro a titolo di diritto sul mio equipaggio. Mia intenzione era di ricompensare in qualche modo questo ministro del servigio che mi aveva reso; ma egli ricusò a tutto costo due zecchini, che lo pregai di accettare, ed anche la mia cioccolata di cui volevo fargli parte. Altro non mi restò dunque che ringraziarlo ed ammirarlo nel tempo stesso. Appuntai bensì il suo nome sul mio libretto di ricordi, e gli promisi un esemplar della nuova edizione delle mie Opere, ed egli accettò con somma gratitudine l’offerta. Montai in calesse, ripresi il mio viaggio, ed arrivai la sera a Bologna.

In questa città appunto, madre delle scienze e Atene d’Italia, era stato fatto il lamento, alcuni anni avanti, che la mia riforma tendeva alla soppressione delle quattro maschere della Commedia italiana. I Bolognesi si sentivan portati a questo genere di commedie più che gli altri; anzi vi erano fra loro alcune persone di merito le quali per divertimento creavano commedie a braccia, che, recitate poi assai bene da altri cittadini abilissimi, formavano la delizia del lor paese. Adunque i dilettanti dell’antica commedia vedendo che la nuova faceva progressi così rapidi, andavano strepitando dovunque, ch’era una cosa indegna per un Italiano il portar pregiudizio a un genere di componimento comico, nel quale appunto l’Italia era divenuta celebre, e che verun’altra nazione aveva saputo imitare. Ma quello che faceva anco maggior breccia negli animi sollevati era la soppressione delle maschere minacciata dal mio metodo; dicendosi che per due intieri secoli questi personaggi erano stati il divertimento d’Italia, e che perciò non conveniva assolutamente privarla di una maniera comica ch’ella stessa aveva creato e per tanto tempo sì ben sostenuto.

Avanti di esporre ciò che allora avevo in animo su questo particolare, penso che non possa dispiacere al mio lettore di essere intrattenuto per pochi minuti sopra l’origine, su l’uso ed effetto di queste quattro maschere. La commedia, ch’è stata in ogni tempo lo spettacolo favorito delle nazioni colte, aveva avuto la stessa sorte delle arti e delle scienze, ed essa pure era stata involta nelle rovine dell’impero e nella decadenza delle lettere. Nel seno fecondo degli Italiani non giacque però mai affatto estinto il germe comico. I primi che si occuparono per farlo rinascere, non trovando in un secolo d’ignoranza scrittori abili, ebbero l’ardire di mettere insieme alcune selve comiche, di distribuire in atti e in scene, e di esporne all’improvviso i sentimenti, i pensieri ed i frizzi fra loro avanti concertati. Quelli che sapevano leggere (e questi non erano già i grandi, o i ricchi), trovarono che nelle commedie di Plauto e di Terenzio vi erano sempre padri ingannati, figli dissoluti, giovani innamorate, servitori birbanti, cameriere corrotte: indi percorrendo le differenti regioni d’Italia, presero da Venezia e da Bologna i padri, i servi da Bergamo, e dagli Stati di Roma e dalla Toscana le amorose, gli amorosi e le servette. Nè si ricerchino prove in iscritto, poichè si tratta di un tempo in cui non si scriveva: eccovi bensì come io provo la mia asserzione. Il Pantalone è sempre stato veneziano; ed il Brighella e l’Arlecchino sempre bergamaschi; [p. 211 modifica] convien dunque inferire che i luoghi dai quali gli istrioni hanno preso i personaggi comici, chiamati le quattro maschere della commedia italiana, fossero i sopra indicati. Quello che io dico su tal proposito non è intieramente di mia immaginazione, poichè tuttora ho con me un manoscritto del decimoquinto secolo, benissimo conservato e rilegato in cartapecora, contenente centoventi soggetti o abbozzi di commedie italiane, denominate commedie dell’arte, la cui base fondamentale riguardo alla parte comica è sempre Pantalone, negoziante veneziano; il Dottore, giureconsulto di Bologna; Brighella ed Arlecchino, servi bergamaschi, l’uno astuto, l’altro balordo. La loro antichità e permanente loro esistenza ne provano indubitatamente l’origine. Riguardo poi al loro uso, il Pantalone ed il Dottore, chiamati dagli Italiani i due vecchi, sostengono le parti di padre e vestono col mantello.

Il primo è un negoziante, perchè Venezia in quei tempi remoti era il paese che faceva il più esteso e ricco commercio d’Italia. Questo personaggio ha conservato sempre l’antica foggia veneziana: infatti la veste nera, ed il berretto di lana che in Venezia son tuttavia in uso, unitamente alla camicioletta rossa ed i calzoni tagliati a mutande, con calze rosse e pianelle, rappresentano al naturale il vestiario dei principali abitanti delle lagune adriatiche. La sola barba, riguardata in quei secoli come uno dei più belli ornamenti dell’uomo, è stata modernamente figurata con un poco di caricatura e perciò resa ridicola. Il secondo vecchio poi, chiamato il Dottore, fu preso dal ceto dei curiali per far così il contrapposto dell’uomo dotto all’uomo commerciante, e fu scelto bolognese, perchè malgrado l’ignoranza di quei tempi, esisteva in Bologna un’università che conservava sempre gl’impieghi e gli onorari dei professori. L’abito pertanto del dottore ritiene tuttora l’antica foggia dell’università e della curia di Bologna, che è l’istessa a un dipresso di quella che si pratica al giorno d’oggi, e la maschera singolare che gli cuopre la fronte e il naso è stata immaginata in conseguenza di una macchia di vino che deformava il volto d’un giureconsulto di quei tempi. Così porta una tradizione che vive tuttavia nei dilettanti delle commedie dell’arte. Finalmente il Brighella e l’Arlecchino, che in Italia hanno anche il nome di Zanni, furono presi da Bergamo, poichè il primo essendo sommamente furbo, ed il secondo completamente balordo, tali estremi non si trovano se non se nella classe del popolo di codesta città. Brighella rappresenta un servitore imbroglione, furbo, e birbante, e il suo vestito è una specie di livrea, con maschera nerastra, indicante con caricatura il colorito degli abitanti di quelle montagne tutti bruciati dall’ardore del sole. Vari comici hanno preso il nome in questa parte di Finocchio, di Fichetto, e di Scappino, ma sotto questi nomi esiste sempre il servo medesimo ed il medesimo bergamasco. Anche gli Arlecchini sono stati chiamati diversamente: vi sono Traccagnini, Truffaldini, Gradellini e Mezzettini, ma sempre però gl’istessi balordi, i medesimi bergamaschi il loro abito figura quello di un povero diavolo che va radunando i pezzi di differente roba e colore che trova casualmente per via, rassettando con essi il suo vestito; il cappello pure corrisponde alla sua mendicità, anzi la coda di lepre che n’è l’ornamento si usa ancora al giorno d’oggi per l’abbigliatura ordinaria dei contadini di Bergamo. In tal modo credo di avere dimostrato bastantemente l’origine e l’uso delle quattro maschere della commedia italiana, onde non mi resta ora a parlare se non se del loro effetto. [p. 212 modifica] La maschera deve sempre pregiudicare all’azione dell’attore, tanto nel manifestare l’allegrezza come il dolore. Perchè sia pure il personaggio amabile, severo, piacevole, ha sempre al viso l’istessa pelle, ed è sempre l’istessa pelle che sta esposta all’occhio dello spettatore. Egli ha un bel variar di tono, non sarà mai capace di far conoscere con i moti de’ suoi lineamenti che sono gl’interpreti del sentimento del cuore, le differenti passioni che agitano l’anima di lui. Fra i Greci ed i Romani le maschere erano una specie di strumento per portar lungi la voce, immaginato per far così sentir meglio i personaggi nella vasta estensione degli anfiteatri. Le passioni e i sentimenti non erano in quel tempo condotti a quel punto di delicatezza che attualmente si richiede; si vuole oggi che l’attore abbia dell’anima, ma l’anima sotto le maschere è come il fuoco sotto la cenere. Ecco la ragione per la quale avevo concepito l’idea di riformare le maschere della commedia italiana, sostituendo le buone commedie all’insulse farse. Ma di giorno in giorno andavano aumentandosi i lamenti, e i due partiti divenivano per me sempre più disgustosi: procurai per ciò di contentare gli uni e gli altri, e mi sottoposi a dar fuori alcune commedie a braccia, senza però desistere di porre in scena le mie commedie di carattere. Feci agire le maschere nelle prime, e mi valsi dell’arte comica nobile e dilettevole nelle seconde; in questa maniera ognuno aveva la sua parte di piacere, onde col tempo e con la pazienza giunsi a vederli tutti d’accordo, ed ebbi inoltre la soddisfazione di trovarmi autorizzato a secondare il mio gusto, che in capo ad alcuni anni divenne il gusto più generale e più adottato in Italia.