Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XVII
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CAPITOLO XVII.
- Mio passaggio dal teatro Sant’Angelo a quello di San Luca. — Mie nuove condizioni. — Fanatismo del marito della prima attrice. — Pretensioni ridicole del Medebac e del mio libraio. — Mio viaggio in Toscana. — Edizione del mio Teatro in Firenze. — Proibizione della mia edizione a Venezia. — L’Avaro geloso, commedia di tre atti ed in prosa. Suo mediocre incontro. — Discorsi de’ miei nemici. — La Donna di testa debole, commedia di tre atti ed in prosa. Sua caduta. — Osservazioni sopra l’evento di queste due commedie.
Dal teatro Sant’Angelo passai a quello di San Luca, che non aveva alcun direttore; i comici si spartivano fra loro tutto il provento ed il proprietario del locale, che godeva soltanto il benefizio dei palchetti assegnava loro delle provvisioni a proporzione del merito e della anzianità. Dovevo adunque trattare con questo patrizio, e rimettere nelle sue mani tutti i lavori che mi eran sempre pagati nell’atto e prima di leggerli. I miei emolumenti erano quasi raddoppiati; avevo piena facoltà di fare stampare le mie opere, nè obbligazione alcuna di seguitare la compagnia in terraferma; perlocchè la mia condizione era divenuta assai più lucrosa ed infinitamente ancora più onorevole. Ma quale stato può mai trovarsi al mondo tanto felice che seguito non sia da qualche amarezza? La prima attrice della compagnia si avvicinava a gran passi all’età di cinquantanni, ed era già arrivata una avvenente giovine fiorentina per le parti di seconda donna; onde correvo rischio di trovarmi spesso obbligato a dare le parti gravi alla giovine, e quelle d’amorosa alla più avanzata. La signora Gandini, ch’era la prima donna, aveva bastante senno per non permetterlo, ma suo marito dichiarò decisamente di mai e poi mai soffrire che venisse fatto il minimo torto a sua moglie. In tali occasioni il proprietario del teatro, aveva tutto il diritto da parlar da padrone, non ardiva di dar licenza a due personaggi dei più anziani, stati ad un tempo di grandissimo vantaggio alla compagnia. Mi risolsi di parlare in particolare al signor Gandini medesimo, domandando a lui per quanto tempo egli credeva che sua moglie potesse esercitare la sua professione e godere dei guadagni del teatro. — Mia moglie, ei soggiunse, può fare sul teatro una bella figura ancora per dieci anni. — Ebbene, quando sia così, io risposi, ho la parola del padrone, che sarà alla signora Gandini assicurata la pensione e l’intera sua parte per lo spazio di dieci anni, promettendovi poi io dal canto mio di farla agire ed applaudire, purchè mi lasciate in libertà d’impiegarla a modo mio. — No signore, riprese allora bruscamente; mia moglie è prima attrice; mi farò piuttosto impiccare, che vederla degradata; — e mi volse in una maniera assai villana le spalle. Giurai però di deluderlo, e vedrete alla terza commedia di quest’anno se mi riuscì di mantener la parola. Siccome la compagnia doveva andare a passar la primavera e l’estate a Livorno, avevo fatto il conto di restare a Venezia, mia unica cura essendo la prima edizione delle mie opere. Pubblicati già dal libraio Bettinelli i primi due volumi del mio Teatro, andai a portargli anco il manoscritto del terzo; ma quale non fu la mia maraviglia, allor quando quest’uomo flemmatico dissemi con tutta pausa e con maniere fredde anzi ghiacciate, che non poteva ricevere altrimenti i miei originali, perchè li ritirava dal Medebac, a conto del quale appunto andava ormai il proseguimento della mia edizione!
Riavuto dal mio stupore, facendo succedere allo sdegno la calma: Amico, gli dissi, siate cauto, voi non siete ricco, e avete figli; non vogliate andar incontro alla vostra perdita, nè mi astringete a procurarla. — Egli insiste. Il Bettinelli, cui forse troppo di leggieri avevo acconsentito di concedere la privativa della stampa delle mie opere, era certamente stato subornato con danaro, onde in tal condizione mi trovavo costretto a combatter contro il direttore, dal quale era contrastata la proprietà delle mie composizioni e nel tempo stesso contro il libraio, già al possesso della facoltà di pubblicarle. Avrei vinto senz’alcun dubbio la causa, ma bisognava litigare; e il litigare è lo stesso per tutto; in questo caso presi la soluzione più sbrigativa. Nel momento stesso me n’andai a Firenze, e quivi diedi principio ad una nuova edizione, lasciando il Medebac e il Bettinelli nella libertà di farne un’altra a Venezia; pubblicai però un prospetto, che mise entrambi in costernazione, giacchè facevo con esso la promessa di parecchie correzioni e cangiamenti. In Firenze venni indirizzato al signor Peperini, stampatore accreditatissimo ed onoratissimo; in due ore di tempo restarono fissate tutte le nostre convenzioni, e in questa guisa nel maggio del 1753 andò sotto il torchio in Firenze il primo volume delle mie opere. Questa fortunata edizione di dieci volumi in ottavo, fatta per associazione e a tutte mie spese, fu condotta fino al numero di mille settecento esemplari, e restò completa con la pubblicazione del sesto volume. Cinquecento erano gli associati di Venezia, quantunque se ne fosse perfino proibita l’introduzione negli Stati della Repubblica. Questa proscrizione delle mie opere dalla mia patria comparirà, per vero dire, singolare, ma in sostanza altro non era se non se un affare di commercio, poichè il Bettinelli aveva trovato protezioni ad oggetto di far valere il suo privilegio esclusivo, e dava ad esso mano anche il corpo dei librai, per la ragione che si trattava di un’edizione forestiera. Frattanto, malgrado questa proibizione e le cautele de’ miei nemici, tutte le volte che esciva dal torchio uno de’ miei volumi, partivano cinquecento copie per Venezia. Si era trovato sulle rive del Po un asilo per depositarvele. Una compagnia di nobili veneziani andava a prendere il contrabbando ai confini, lo introduceva nella capitale, e ne faceva a vista di tutti la distribuzione, nulla mescolandosi il governo in questo affare, che riguardava già più come ridicolo che importante. Stando io a Firenze e i miei nuovi comici a Livorno, andavo di tempo in tempo a trovarli, anzi consegnai in mano del primo amoroso due commedie fatte malgrado le laboriose ed assidue cure della mia edizione. Ai primi d’ottobre ci riunimmo tutti in Venezia, e per prima commedia vi esponemmo L’Avaro geloso. Mi riuscì di dipingere il protagonista di questa commedia nella vera sua natura. Fu appunto in Firenze, ove a scorno dell’umanità viveva quest’uomo, e me ne fu fatta la genuina istoria ed il ritratto. Costui era dominato da due vizi egualmente odiosi, e per il contrasto delle sue passioni si ritrovava spesso in condizioni veramente comiche. E una cosa ben bizzarra il vedere un marito eccessivamente geloso, ricevere egli medesimo un vassoio di argento con cioccolata, una boccetta d’oro piena di acqua odorosa, e poi tormentar la moglie dicendole, aver essa dato motivo ai suoi adoratori di farle simili donativi. La malvagità di questo carattere è, parlando schietto, da ributtare; nulladimeno la commedia si sarebbe sostenuta se l’attore incaricato della parte principale non fosse stato per natura tanto disgraziato e al pubblico in così poca stima. Per una parte così cattiva credetti di far bene scegliendo un uomo che per sè stesso non ci scomparisse, essendo pure di opinione che la sua magrezza, la sua fisonomia e la sua voce fessa convenissero appunto a questo carattere; ma m’ingannai. Assegnata però di lì a pochi anni la medesima parte al Rubini, Pantalone della compagnia, questa istessa commedia, andata a terra la prima volta che fu rappresentata, divenne in séguito una delle commedie favorite di questo attore eccellente. I miei amici non erano punto disturbati dai triste esito della mia prima commedia, e i partitanti del teatro Sant’Angelo dicevano con una certa allegrezza che mi sarei pur troppo pentito di aver lasciata una compagnia che faceva spiccare le mie composizioni. Tali discorsi non m’inquietavano, poichè vivevo nella sicurezza d’impor silenzio a tutti con la mia terza commedia, benchè stessi in infinito timore per il buon successo della seconda ch’ero per dare. Questa fu La Donna di testa debole, o La Vedova infatuata. Donna Violante è una vedova infatuata delle sue attrattive e del suo ingegno, e che si dà grande aria di letterata. Il suo cattivo gusto però la determina sempre alle opere più screditate, fa dei versi che la rendono più ridicola, e la propria leggerezza le fa prendere per elogi le derisioni. Troppo è sincero don Fausto perchè possa piacerle: egli è sventurato, ma sempre costante; onde col mezzo della sua fermezza e sofferenza giunge a disingannare pienamente la sua amante, si guadagna la totale confidenza di lei, e le fa deporre a poco a poco tutte le ridicole pretensioni. Alla prima recita questa commedia andò a terra; cosa da me già preveduta; ond’ebbi per mia disgrazia anche il rammarico di veder verificato il prognostico.
Mi accorsi troppo tardi delle condizioni sfavorevoli a me, ed ai miei comici: infatti non erano questi bastantemente ancora instruiti nel nuovo metodo delle mie commedie, nè io avevo avuto tempo d’insinuar loro quel gusto, tono e maniera naturale ed espressiva, che era il pregio dei comici del teatro Sant’Angelo. Un’altra cosa da valutarsi anche più era la maggior vastità del teatro San Luca, per cui in esso le azioni semplici e delicate, le furberie, gli scherzi, il vero genere comico vi perdevano molto. Si poteva certo sperare, che col tempo il pubblico fosse per adattarsi al locale, ed ascoltar potesse con maggiore attenzione le commedie ben condotte e prese dalla natura; ma sarebbe stato però necessario d’imporre sul principio con argomenti robusti, con azioni che senza essere gigantesche si fossero elevate sopra l’ordinaria commedia. Ecco qual era la mia prima idea; ma il carico della mia edizione non mi lasciò padrone del mio volere: e non eseguii questo colpo strepitoso, nè adoprai quello sforzo d’immaginazione necessario per prender posto con onore nel nuovo teatro, in cui doveva sempre più avanzare la mia riforma e sostenere la mia reputazione, se non se alla terza commedia.