Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XLI

XLI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - XL Parte seconda - XLII

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CAPITOLO XLI.

Mio ritorno a Venezia. — Non avevo fatto nulla per l’apertura del mio teatro. — Facilità acquistata con l’esperienza. — Gli Innamorati, commedia di tre atti ed in prosa. — Poche parole sopra questo componimento. — Suo bel successo. — La casa nova, commedia veneziana di tre atti, in prosa. — Suo compendio. — Suo incontro magnifico.

Ebbi appena tempo di riposarmi, che dovetti rimettermi al lavoro. Ero tornato il primo giorno di settembre, e l’apertura degli spettacoli seguiva ai quattro del mese dopo, e nulla avevo di fatto. Troppo piacevoli erano state per me le distrazioni trovate in Roma perchè avessi tempo da potermi occupare. Per quanto fossi laborioso, amavo sempre il piacere; e senza perdere di vista i miei impegni profittavo di tutti i momenti di libertà che potevo prendermi, fidando nella mia facilità e lavorando con maggiore ardore, allorchè mi trovavo sollecitato a terminar qualche cosa. Conviene inoltre aggiungere che il tempo, l’esperienza e l’uso mi avevano resa familiare in modo l’arte comica, che immaginati i soggetti e fatta la scelta dei caratteri, tutto il resto non era più per me che un passatempo. Altre volte mi conveniva far quattro operazioni, prima di giungere alla costruzione ed alla correzione di una commedia. La prima operazione consisteva nel disegno e nella divisione delle tre parti principali: cioè esposizione, intreccio e svolgimento. La seconda nella distribuzione dell’azione in atti ed in scene. La terza nel dialogo delle scene più importanti. E la quarta nel dialogo generale della commedia in tutta la sua estensione. Mi era accaduto spesso che giunto a questa ultima avevo variato quanto vi era di fatto nella seconda e nella terza. Le idee si formano per successione, una scena produce l’altra, e un vocabolo trovato a caso somministra talvolta un pensiero nuovo. In capo a qualche tempo mi è riuscito di ridurre le quattro operazioni ad una sola. Infatti ora tengo il metodo di mettermi prima in testa il disegno e le tre divisioni della composizione, e poi comincio subito: Atto primo, scena prima: e così proseguo fino al termine, avendo per altro sempre in mira la massima, che tutte le linee debbon tendere a un punto fisso, ciò è allo svolgimento dell’azione, parte principale; per la qual cosa sembra che tutta la macchina sia preparata. Di rado mi ingannai negli svolgimenti delle mie [p. 253 modifica]Commedie, anzi posso arditamente dire, giacchè l’han detto tutti, nè mi par cosa difficilissima, che si può facilmente avere un felice svolgimento, quando siasi ben preparato fin dal principio della commedia, nè siasi mai perduto di vista nel corso del lavoro. Cominciai dunque, e finii in quindici giorni, una commedia di tre atti ed in prosa, intitolata Gli Innamorati. Il titolo non prometteva nulla di nuovo, mentre poche sono le commedie senza amori; vero è bensì che non se ne conosce da me alcuna in cui gl’innamorati siano della tempra di quelli che hanno parte in quella di cui si tratta; poichè l’amore sarebbe certamente il flagello più spaventevole della terra, se rendesse gli amanti così furiosi e disgraziati, come i due soggetti principali della mia commedia. Ne avevo per altro veduto gli originali in Roma; ero stato amico e comidente d’entrambi, come pure il testimone della loro passione, della loro tenerezza, e spesso ancora dei loro eccessi di furore e de’ loro impeti ridicoli. Più di una volta avevo inteso le loro reciproche lagnanze, le loro grida, le loro disperazioni e mi ero ritrovato a veder strappare fazzoletti, rompere cristalli, impugnare coltelli, e benchè i miei innamorati vadano in eccessi, il loro carattere non lascia per questo di esser vero. In questa mia composizione, io stesso lo confesso, vi è molto più di realtà che di verosimiglianza, ed in conseguenza appunto della certezza del fatto fui di sentimento di doverne delineare un quadro che movesse a riso taluni, ed a spavento altri. In Francia non si sarebbe tollerato un soggetto di tal sorte, laddove in Italia passa soltanto per un poco caricato, anzi coi miei propri orecchi sentii parecchie persone di mia conoscenza vantarsi di essere state a un dipresso nel caso istesso. Non feci dunque male a dipingere in grande le follie dell’amore in un paese ove il clima riscalda i cuori e le teste più che altrove. A questa commedia, che ebbe una riuscita migliore di quella che io mi aspettava, ne feci subito succedere un’altra che la sorpassò di gran lunga, il cui titolo era La Casa nova, commedia veneziana. Avevo mutato casa, e siccome andava sempre in cerca di argomenti comici per ogni parte, ne trovai uno negli impicci della sgomberatura. Non trassi il soggetto della mia commedia da me stesso in particolare, ma l’occasione mi somministrò il titolo, e la fantasia fece il resto. Si apre pertanto la scena con alcuni tappezzieri, pittori e legnaiuoli, che tutti lavorano nell’appartamento. Una donna di servizio dei nuovi locatari sgrida, per ordine de’ suoi padroni, gli operai perchè ritardano il lor lavoro, e tien con loro un discorso come appunto avrei tenuto io stesso ai medesimi, le cui cattive ragioni sono a un dipresso quelle stesse che avevano stancato la mia pazienza per due continui mesi. Lucietta, ch’era una ciarliera quanto mai dir si possa, dopo di avere adempiuto la sua commissione, sta divertendosi col tappezziere, facendo al vivo il ritratto del suo principale e delle sue padrone; in tal guisa resta il pubblico piacevolmente informato dell’argomento della commedia, come dei caratteri dei personaggi. Anzoletto, ch’è il nuovo casigliano, è un giovine di buonissima famiglia senza padre e madre, che ha una sorella ragazza che sta con lui, ha beni, ma trovasi in gran disordine, avendo sposato di recente una ragazza senza fortuna con molta pretensione e civetteria. Meneghina, sorella di Anzoletto, ha un amante chiamato Lorenzin. Questi abita appunto dirimpetto alla casa ch’ella è per lasciare, onde sono ambedue nel dispiacere di dover allontanarsi. Lorenzin però per esser cugino germano di due sorelle dalle quali è occupato il secondo [p. 254 modifica] piano, non perde la speranza di riveder la sua bella. Intanto la signora Cecilia, ch’è la maritata, e che aveva scelto il primo appartamento, ci comparisce con un conte forestiero che sostiene con lei l’onorevole carica di cicisbeo. Meneghina l’aveva preceduta, ed era molto malcontenta della camera che le era stata destinata. In Italia gli ultimi che arrivano sono i primi a ricever visita; per tal ragione adunque le due sorelle del secondo piano domandano il permesso di far visita a quelle del primo, ed ecco queste nel maggiore imbroglio; vorrebbe ognuna ricever la visita particolarmente, ed oltre a ciò, siccome l’appartamento che abitano non è per anche in ordine, fanno dire che non v’è nessuno e la visita passa per fatta.

La signorina però di sotto non ha altra premura maggiore che di far visita alle sue parenti di sopra, onde ci va senza farne parola alcuna alla cognata. Ella adunque vien benissimo accolta, seguono molte cerimonie sì da una parte come dall’altra, tutte sono illustrissime, nè vi è miseria di titoli. Le due sorelle del secondo piano, la prima delle quali era maritata, conoscevano già chiaramente l’inclinazione del loro cugino per Meneghina. Quando essa fecesi annunziare, Lorenzin appunto era da loro, onde lo nascosero in uno stanzino per procurarsi il piacere di una piacevole sorpresa. Nel momento ch’elleno son decise a far venire il giovane, si dà avviso che la signora Cecilia sale: Lorenzin adunque resta sempre nel suo nascondiglio, e Meneghina séguita a non saperlo. Qui Cecilia sgrida la sua cognata perchè è salita da quelle signore senza avvertirla; ma Meneghina, che ha già fatto la sua visita, in quell’atto istesso se ne va.

La conversazione pertanto delle tre signore che rimangono, riesce molto comica. Vi si trova infatti un mescuglio di superbia e di piccolezza, un’infinità di pretensioni e di ciarle, e sopratutto dell’indiscretezza per parte di Cecilia riguardo alla sua cognata. Le due sorelle se ne prendono giuoco, e domandano a lei la ragione per la quale Anzoletto non dia marito a Meneghina. Cecilia, sempre pronta a dirne più male che bene, risponde ch’essa aveva un amante dirimpetto alle finestre della casa da lei ultimamente lasciata, e che questi era un cattivo soggetto, dicendone financo il nome. Le due sorelle allora prendono le difese del cugino: la conversazione termina male, ecco tutti in iscompiglio; Lorenzin, poichè aveva ascoltato tutto, vuole assolutamente sfogare la sua collera col marito di Cecilia. Vi è però per Anzoletto di peggio. Il proprietario della vecchia casa ha messo il sequestro ai mobili di lui, per motivo di pigioni insoddisfatte, e i provveditori della nuova minacciano di far lo stesso. Anzoletto pertanto si ritrova nel maggior impiccio, e ricorre al conte da cui vorrebbe in prestito del danaro; ma il cicisbeo della moglie non è troppo cortese verso il marito. Mentre tutto è scompiglio nel primo appartamento, si tratta con ogni premura nel secondo dell’accomodamento delle cose. Anzoletto ha uno zio molto ricco, ma disgustatissimo della condotta di suo nipote. Questo zio, che si chiama il signor Cristoforo, è un vecchio amico del marito della sorella maggiore che abita il secondo appartamento: ella dunque lo manda a cercare, e gli partecipa l’inclinazione di Lorenzin verso la signora Meneghina. Cristoforo è un poco selvatico, ma di buon cuore, ama la sua nipote ed acconsente benissimo a maritarla; onde alle istanze della moglie del suo amico si piega in favore di Anzoletto. Paga i debiti di lui, si rappacifica col nipote, ma a condizione che tanto egli quanto sua moglie cambino modo di vivere. Ecco il germe del Burbero benefico. La Casa [p. 255 modifica] nova fu ricevuta con estremo piacere; chiuse le rappresentazioni autunnali, e si è sempre sostenuta nella classe di quelle composizioni che hanno un costante incontro, e che del teatro compariscono sempre nuove.