Commedie, anzi posso arditamente dire, giacchè l’han detto tutti, nè mi par cosa difficilissima, che si può facilmente avere un felice svolgimento, quando siasi ben preparato fin dal principio della commedia, nè siasi mai perduto di vista nel corso del lavoro. Cominciai dunque, e finii in quindici giorni, una commedia di tre atti ed in prosa, intitolata Gli Innamorati. Il titolo non prometteva nulla di nuovo, mentre poche sono le commedie senza amori; vero è bensì che non se ne conosce da me alcuna in cui gl’innamorati siano della tempra di quelli che hanno parte in quella di cui si tratta; poichè l’amore sarebbe certamente il flagello più spaventevole della terra, se rendesse gli amanti così furiosi e disgraziati, come i due soggetti principali della mia commedia. Ne avevo per altro veduto gli originali in Roma; ero stato amico e comidente d’entrambi, come pure il testimone della loro passione, della loro tenerezza, e spesso ancora dei loro eccessi di furore e de’ loro impeti ridicoli. Più di una volta avevo inteso le loro reciproche lagnanze, le loro grida, le loro disperazioni e mi ero ritrovato a veder strappare fazzoletti, rompere cristalli, impugnare coltelli, e benchè i miei innamorati vadano in eccessi, il loro carattere non lascia per questo di esser vero. In questa mia composizione, io stesso lo confesso, vi è molto più di realtà che di verosimiglianza, ed in conseguenza appunto della certezza del fatto fui di sentimento di doverne delineare un quadro che movesse a riso taluni, ed a spavento altri. In Francia non si sarebbe tollerato un soggetto di tal sorte, laddove in Italia passa soltanto per un poco caricato, anzi coi miei propri orecchi sentii parecchie persone di mia conoscenza vantarsi di essere state a un dipresso nel caso istesso. Non feci dunque male a dipingere in grande le follie dell’amore in un paese ove il clima riscalda i cuori e le teste più che altrove. A questa commedia, che ebbe una riuscita migliore di quella che io mi aspettava, ne feci subito succedere un’altra che la sorpassò di gran lunga, il cui titolo era La Casa nova, commedia veneziana. Avevo mutato casa, e siccome andava sempre in cerca di argomenti comici per ogni parte, ne trovai uno negli impicci della sgomberatura. Non trassi il soggetto della mia commedia da me stesso in particolare, ma l’occasione mi somministrò il titolo, e la fantasia fece il resto. Si apre pertanto la scena con alcuni tappezzieri, pittori e legnaiuoli, che tutti lavorano nell’appartamento. Una donna di servizio dei nuovi locatari sgrida, per ordine de’ suoi padroni, gli operai perchè ritardano il lor lavoro, e tien con loro un discorso come appunto avrei tenuto io stesso ai medesimi, le cui cattive ragioni sono a un dipresso quelle stesse che avevano stancato la mia pazienza per due continui mesi. Lucietta, ch’era una ciarliera quanto mai dir si possa, dopo di avere adempiuto la sua commissione, sta divertendosi col tappezziere, facendo al vivo il ritratto del suo principale e delle sue padrone; in tal guisa resta il pubblico piacevolmente informato dell’argomento della commedia, come dei caratteri dei personaggi. Anzoletto, ch’è il nuovo casigliano, è un giovine di buonissima famiglia senza padre e madre, che ha una sorella ragazza che sta con lui, ha beni, ma trovasi in gran disordine, avendo sposato di recente una ragazza senza fortuna con molta pretensione e civetteria. Meneghina, sorella di Anzoletto, ha un amante chiamato Lorenzin. Questi abita appunto dirimpetto alla casa ch’ella è per lasciare, onde sono ambedue nel dispiacere di dover allontanarsi. Lorenzin però per esser cugino germano di due sorelle dalle quali è occupato il secondo