Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XLII
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CAPITOLO XLII.
- La Donna stravagante, commedia di cinque atti, in versi. — Le Baruffe Chiozzotte, commedia di tre atti, in prosa. — Suo stupendo incontro. — Proposta della mia edizione del Pasquali. — Lettura di un autor francese.
Con la commedia La Donna stravagante fu aperto il carnevale dell’anno 1760. Il carattere principale della commedia era così cattivo, che le donne non avrebbero mai tollerato che si credesse desunto dalla natura; onde fui costretto a dire essere un soggetto di pura invenzione. Donna Livia è la maggiore di due sorelle, le quali, avendo perduto il padre e la madre, vivono sotto la guida del cavalier Riccardo loro zio paterno. Donna Rosa è la minore, ed è d’indole altrettanto dolce e giudiziosa, quanto sua sorella è fiera, iraconda, capricciosa; onde la bontà dell’una serve di contrapposto al cattivo naturale dell’altra. Donna Livia è gelosa di sua sorella, e però fa soffrir mille martiri e mille morti ad un amante che l’adora; tratta villanamente anche la sorella minore che non ha inclinazioni nè voglie di sorta alcuna, ed è inoltre con tali sue stravaganze cagione d’un’infinità d’impacci e travagli per il zio cavaliere, che d’altro non si occupa che della felicità delle nipoti.
Questo zio affettuoso e saggio vorrebbe procurare ad entrambe un vantaggioso collocamento: a tal fine interroga la maggiore sulla scelta del suo stato; ma Livia teme male a proposito una rivale nella sorella; onde per assicurarsene vuole che questa parli la prima. Ciò non è giusto (dice allora il cavaliere); tocca a voi ad essere la prima a parlare. — Oh! per me è tutt’uno (replica donna Livia); cedo volentierissimo a Rosa la precedenza: a me piace così, e così voglio. — Voi lo volete (ripigliò il cavaliere di mal umore); ebbene sarete contenta; la prima a parlare sarà donna Rosa. — Frattanto si presentano a lei, che è la meno bella, ma la più ragionevole, parecchi partiti. Allora donna Livia reclama i suoi diritti, ed è capace di tali e tante stravaganze, che son bastanti a fornire la materia per una commedia di cinque atti; e finisce per isposare in segreto quell’amante che tanto aveva fatto soffrire, e che le aveva proposto suo zio medesimo. Questa commedia ebbe un sufficiente incontro; essa però era fatta per averne uno maggiore, se la signora Bresciani, un poco capricciosa di sua natura, non avesse creduto di rappresentar sè stessa; onde il suo cattivo umore indebolì l’effetto di tal composizione. Rimediai ben presto ai demeriti acquistatimi con questa attrice eccellente, componendo una commedia intitolata Le Baruffe Chiozzotte. Questa commedia, espressamente fatta per il gusto del basso popolo, produsse un effetto mirabile. La signora Bresciani, malgrado il suo accento toscano, avea saputo prender così bene le maniere e la pronunzia veneta, che piaceva nelle commedie gravi e sublimi in egual modo che in quelle di basso stile. Non darò l’estratto di questa commedia, il cui fondo è un niente, e che deve il suo buon esito al quadro da me dipinto al naturale. Ero stato nella mia gioventù a Chiozza in qualità di coadiutore del cancelliere criminale; impiego che corrisponde a quello di sostituto del luogotenente criminale. Avevo dunque trattato con quella numerosa e tumultante popolazione di pescatori, di marinari e donnicciuole, che altro luogo non hanno di conversazione se non se la pubblica via. Conoscendo i loro costumi, il loro linguaggio, il loro brio e la loro malizia, mi trovavo in istato di dipingerli; e nella capitale, non più di venticinque miglia distante da questa città, si conoscevano perfettamente i miei originali; la commedia adunque ebbe un successo dei più splendidi, e con essa restò chiuso il carnevale.
Il giorno seguente delle Ceneri, mi ritrovai ad una di quelle cene di magro con le quali i nostri ghiotti di Venezia danno principio alle loro colazioni quadragesimali. A questo banchetto eravi tutto ciò che l’Adriatico e il Lago di Garda può mai somministrare in genere di pesce. Il discorso andò a cadere sopra gli spettacoli, nè si ebbe riguardo alcuno alla modestia dell’autore, che vi si trovava presente come uno dei commensali: annoiatissimo pertanto di sentir sempre risuonarmi all’orecchio i discorsi medesimi, per allontanar da me tutti i complimenti e gli elogi che mai non aveano fine, partecipai alla conversazione una nuova idea ch’io aveva concepita. I vini ed i liquori avevano già rallegrati gli animi; nulladimeno si fece silenzio, e si prestò orecchio al mio dire con sufficiente attenzione. Una nuova edizione del mio Teatro era il punto sopra del quale volevo trattenerli; procurai di esser breve, ma dissi per altro quanto bastar poteva per far ben capire la mia intenzione. Riscossi applauso, fui incoraggito; e nel momento stesso fu fatto portare carta e calamaio. La conversazione era composta di diciotto persone senza me; fu dunque subito aperto un foglio di soscrizione, e ciascuno coscrisse per dieci esemplari: feci adunque in una sola serata cent’ottanta firme.
Ecco l’origine della mia edizione del Pasquali. Di essa ho già bastantemente parlato nella Prefazione delle mie Memorie, onde non stancherò d’avvantaggio il lettore, avendo ora più piacere di partecipargli una lettera pervenutami in data di Ferney alcuni giorni dopo. Credereste voi forse che ella potesse essere del signor Voltaire? no, v’ingannate; ne ho ricevuto, è vero, parecchie da questo grand’uomo, da questo uomo unico, ma in quel tempo non avevo l’onore di essere in corrispondenza con lui. La lettera dunque, nella quale vi parlo, era sottoscritta Poinsinet. Io nol conosceva, ma egli dichiaravasi per autore. In essa mi teneva discorso di alcune composizioni da lui esposte all’Opera buffa di Parigi; mi diceva di ritrovarsi a Ferney in casa di un suo amico, da cui aveva avuto l’incarico di dirmi parecchie cose per parte sua, e mi pregava di dirigergli la risposta a Parigi. L’oggetto che l’avea indotto a scrivermi era l’idea da lui concepita di tradurre in francese tutto il mio Teatro Italiano. Per tal motivo chiedeva franchissimamente e senza troppe cerimonie i manoscritti delle mie commedie non ancora stampate, unitamente agli aneddoti che mi riguardavano. Da principio mi credei onorato che un autore francese volesse occuparsi de’ miei lavori; ma d’altra parte trovai le sue domande un po’ troppo precipitate; e non conoscendolo in modo alcuno, gli risposi pulitamente, ma in termini da distorlo dall’intrapresa. Infatti gli partecipavo la notizia che stavo per assumere una nuova edizione con correzioni e cangiamenti, e che oltre di questo le mie commedie essendo piene di diversi dialetti italiani, la traduzione del mio Teatro si rendeva per un forestiero quasi impossibile. Credevo di aver detto abbastanza su tal proposito: niente affatto: ecco una seconda lettera dell’istesso autore in data di Parigi: «Starò attendendo, o signore, le correzioni ed i cambiamenti che vi siete proposto di fare nella nuova edizione. Rispetto ai diversi dialetti italiani vivete pur traquillo; ho con me un servitore, che ha percorso tutta l’Italia, che li conosce tutti, ed è in grado di spiegarmene il valore: ne sarete contento». Questa proposizione mi dispiacque oltre modo: e credetti allora che l’autore francese si burlasse di me. Vado immediatamente in casa del signor conte Baschi, ambasciadore di Francia a Venezia; gli partecipo le due lettere del signor Poinsinet, e gli domando informazioni sul soggetto che mi scriveva. Ora non ho memoria precisa di ciò che S. E. mi disse relativamente al signor Poinsinet; ricordo bensì che mi fu da lui rimessa in quel medesimo istante una lettera giuntagli allora, unitamente ai dispacci della Corte. Conteneva una nuova sommamente piacevole per me, di cui renderò conto nel seguente capitolo.