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capitolo xxxviii 105

La signora St*** e sua figlia son venute a trovarmi, e ricolmandomi di gentilezze mi hanno parlato di te, come di un giovine stimabile e da ammirarsi; la fama dei tuoi ottimi successi ti ha reso degno della loro considerazione, anzi tuttavia contano sopra di te. — No, ripresi allora in tono di sdegno, no, madre mia, non sarà possibile che io possa mai legarmi con una famiglia che mi ha deluso, rovinato, ed in ultimo mi ha avuto a vile. — Non t’inquietare per questo, ella soggiunse, esse continuano sempre ad esser ricche come prima; anderò a restituir loro la visita, ne terrò proposito, e m’impegno di tirarti ben presto fuori d’ogni difficoltà. Parliamo un poco di altre cose: che hai fatto nel tempo della nostra separazione? — L’appagai nel momento: la misi al fatto di parecchie mie avventure, occultandone una gran parte, e la feci ridere, piangere, tremare. Desinammo in compagnia dei nostri parenti; essa moriva di voglia di ridere alla conversazione, in tempo di tavola, ciò che le avevo raccontato; ma imbrogliandosi ad ogni poco, non faceva che risvegliar maggiormente la curiosità di chi l’udiva: ero dunque obbligato di ricominciar sempre io. L’allegria del pranzo mi ravvivava: dicevo pertanto anche le cose da me taciute: — Ah! briccone, ella dicevami di tempo in tempo, questa cosa non me l’avevi detta, quella neppure, neppur quest’altra; in somma passai molto piacevolmente la mia giornata, e feci ridere a mie spese i vecchi e le vecchie zie, che non ridevano mai. Per vero dire avevo forse molto più grazia nel parlare, che nello scrivere.

Verso la fine del mese di settembre ritornò alla capitale la compagnia dei miei comici; si replicarono le prove della nostra apertura, e il dì 4 d’ottobre andò in scena. Di quella novità rimasero tutti colpiti. L’assemblea letteraria fu gustata molto. La commedia di un sol atto andò a terra, a cagione dell’Arlecchino che non incontrava; l’Opera comica poi fu bene accolta, e rimase al teatro.

Il direttore era soddisfatto che la parte musicale prevalesse, benchè non fosse troppo contento della signora Passalacqua: la sua voce era falsa, monotona la maniera, ingrata la fisonomia. Volendo Imer sostenere gl’intermezzi in tutti i modi, gliene propose la maniera un sonatore dell’orchestra. Questo buon vecchio di sessanta anni aveva sposato di fresco una signorina che non passava i diciotto. La istruiva nel canto sul suo violino, ed essa dimostrava un’ottima disposizione. Incontrando molto presso Imer, mi pregò subito di averne cura, ed io me ne incaricai con tutto il piacere, trovandola bellissima e docilissima. La signora Passalacqua ne divenne gelosa, ed avendo già fatti tentativi inutili ad Udine per guadagnarmi, il di lei colpo non andò a vuoto a Venezia. Ricevo un giorno un biglietto di sua propria mano, col quale mi prega di andare in sua casa verso le ore cinque della sera; non potei per ragion di convenienza ricusare; ci vado, ed essa mi riceve in un abbigliamento da ninfa di Citera: mi fa sedere sopra un canapè accanto a sè, e mi dice le cose più lusinghevoli e più galanti del mondo; già la conoscevo bene, onde stetti in guardia, sostenendo la conversazione con un eroico contegno. E poi non l’amavo; era magra, aveva gli occhi verdi, e copriva la sua faccia pallida e giallastra un’infinità di liscio. Annoiata della mia indifferenza, adoprò allora tutte quante le armi della sua scaltrezza: — E sarà possibile, ella mi disse in tono appassionato, che di tutte le donne della compagnia, io sia la sola ad aver la disgrazia di dispiacervi? So esser giusta; ho saputo rispettare il merito fintantochè vi vidi avere una propensione per la signora Ferramonti; ma vedervi in