Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXVII
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CAPITOLO XXXVII.
- I miei comici a Padova. — Mutazioni succedute nella compagnia. — Mia predilezione per una bella comica. — Griselda, tragedia. — Mio viaggio a Udine. — Colloquio con la mia antica acquacedrataia. — Spettacolo preparato all’apertura del teatro di Venezia. — Morte della mia bella comica.
La compagnia Grimani era passata a Padova per farvi le sue recite nella stagione della primavera, aspettandomi con impazienza per porre in scena le mie rappresentazioni. Sbrogliato dall’opere di Venezia, mi trasferii a Padova, e sul teatro appunto di questa città comparvero per la prima volta le mie composizioni. Gli applausi de’ miei confratelli dottori eguagliarono quelli de’ miei compatrioti. Trovai nella compagnia molte mutazioni: la servetta era partita per Dresda per prender servizio a quella Corte, ed essendo stato ringraziato l’Arlecchino, s’era fatto venire in sul luogo il signor Campagnani di Milano, che fra i dilettanti era la delizia del suo paese, ed era insoffribile tra i comici. La perdita però più considerevole che la compagnia aveva fatta era quella della vedova Casanuova, la quale, malgrado la lega in cui era col direttore, si era impegnata al servizio del re di Polonia; pel canto, le fu sostituita la signora Passalacqua, che nel tempo istesso si addossò la parte di servetta, essendosi fatto acquisto per le parti di prima amorosa della signora Ferramonti, graziosa attrice, giovine, bella, amabilissima, molto colta, piena d’ingegno, e di qualità eccellenti. Mi accorsi subito del suo merito, sentii per lei un affetto particolare, divenni amico di suo marito che non aveva impiego alcuno tra i comici, ed avevo concepito l’idea di rendere questa giovane una vera attrice. Non lasciarono le altre donne di esserne gelose; e provai pertanto parecchi disgusti, e ne avrei sofferti anche di più, se la morte non l’avesse tolta al mondo in quell’anno istesso. Dopo alcuni giorni che io era a Padova, il direttore mi parlò delle nuove rappresentazioni che bisognava preparare per Venezia. La signora Collucci, soprannominata la Romana, era la prima amorosa della compagnia a vicenda con la Bastona, e malgrado i suoi cinquantanni, che l’abbigliatura ed il liscio non potevano nascondere, aveva un suono di voce così chiaro e dolce, una pronunzia talmente giusta, e tante grazie così schiette e naturali, che pareva ancora nella maggior freschezza della sua età. La signora Collucci possedeva una tragedia del Pariati intitolata Griselda, ed era appunto la sua rappresentazione favorita; ma essendo in prosa, fui incaricato di metterla in versi. Nulla per me di più facile, giacchè mi ero occupato di questo stesso soggetto in Venezia, e la Griselda del Pariati altro in sostanza non era, che l’opera da lui stesso composta in compagnia di Apostolo Zeno. Mi accinsi con piacere a contentar la Romana, non seguitando con precisione gli autori del dramma, anzi facendovi molte variazioni; vi aggiunsi inclusive il padre di Griselda, padre virtuoso, che aveva veduto salire al trono senz’orgoglio sua figlia, e la vedeva parimente scendere dal medesimo senza il menomo rincrescimento. Immaginai questo nuovo personaggio, perchè avesse parte anche il mio amico Casali. Quest’episodio diede alla tragedia un’aria di novità, la rese più piacevole, e mi fece passare per autore della rappresentazione. Nell’edizione delle mie opere fatta a Torino nel 1777 da Guibert e Orgeas, questa Griselda si trova stampata come una composizione di mia pertinenza; ma siccome ho in sommo orrore i plagi, protesto adesso solennemente di non esserne stato l’autore.
Avevano i miei comici compito in Padova il numero delle rappresentazioni convenute, e andavano facendo i loro fagotti per passare a Udine nel Friuli veneziano.
Imer mi fece la proposta di condurmi seco. Non avendo più da temere cosa alcuna da parte dell’acquacedrataia, che era già maritata, condiscesi a seguitare la compagnia, non viaggiando però col direttore. Feci a lui le mie scuse, e partii in una buona vettura con la signorina Ferramonti ed il buon uomo di suo marito. Le mie opere furono in Udine applauditissime, ed avendovi già la preoccupazione degli Udinesi in favore, fu trovato l’autore del Quaresimale poetico anche poeta drammatico, a parer loro, assai buono. Quell’acquacedrataia, da me non mai amata, bensì conosciuta e frequentata, e che terminò col mettermi in grandissimo travaglio, seppe che io era in Udine, e volle vedermi. Era maritata a un uomo della sua condizione, e mi scrisse una lettera molto astuta e allettativa. Andai a trovarla a un’ora fissata, e scorsi in lei una gran mutazione; il nostro trattenimento non fu lungo, nè avendo voglia di sacrificar per lei le mie nuove inclinazioni, la rividi una seconda volta e non più. D’altra parte troppo mi stavano a cuore le mie occupazioni teatrali, e desideravo far qualche cosa di straordinario all’apertura del teatro della capitale. Ruminai parecchie idee, ne comunicai alcune al direttore, ed ecco quella sulla quale ci fermammo, ed a cui diedi esecuzione. Era un divertimento diviso in tre parti diverse, che appunto equivalevano ai tre atti di una rappresentazione ordinaria. La prima parte consisteva in un’assemblea letteraria; tutti gli attori all’alzar del sipario si trovavano a sedere, e distribuiti su palco scenico vestiti alla paesana. Il direttore dava principio con un discorso sopra la commedia, e su i doveri dei comici, e terminava col fare al pubblico un complimento. Gli attori e le attrici recitavano uno per volta strofe, sonetti, madrigali analoghi alla qualità del loro impiego, unitamente a parecchi versi che si dicevano dalle quattro maschere, per allora a viso scoperto, nelle lingue dei personaggi che rappresentavano.
La seconda parte consisteva in una commedia d’un solo atto a braccia, nel quale procuravo di far nascere scene molto gradevoli per i nuovi attori. La terza poi conteneva un’opera comica in tre atti, ed in versi, intitolata la Fondazione di Venezia.
Questa composizioncella, che era forse la prima opera comica comparsa nello Stato veneto, si trova nel vigesimo ottavo volume delle mie opere dell’edizione di Torino. Imer fu contentissimo della mia idea e della maniera con la quale l’avevo eseguita. N’era incantata tutta la compagnia; non c’era che la Bastona, che si lamentasse di me, dicendo ad alta voce, che nella ciarlataneria della mia apertura avevo fatto per la signora Ferramonti (la quale in sostanza era una seconda attrice) una composizione in versi che le prime avean tutto il diritto di reclamare, ed incitava la Romana a lagnarsene e a molestarmi. — Ahimè! la povera Ferramonti non fu per molto tempo l’oggetto della gelosia dei suoi camerati. Era gravida, e il tempo del suo parto si manifestava con preliminari sommamente incomodi. La natura le ricusò il suo aiuto, e la levatrice si trovò nella più grande difficoltà. Fu fatto venire il professore; essendo il feto mal voltato, convenne ricorrere all’operazione cesarea. Il figlio era già morto, e la madre lo seguì poco dopo.
Venne a trovarmi il marito nella maggior desolazione, ed io non era men desolato di lui; non poteva più vedermi in questa città, nè sostener più a lungo la vista di quelle donne che godevano della mia afflizione; onde, sotto pretesto di andare a trovar mia madre, che era di ritorno da Modena, partii subito per Venezia.