Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXI

XXXI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - XXX Parte prima - XXXII

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CAPITOLO XXXI.

Resa del castello di Milano. — Assedio di Pizzighettone. — Armistizio. — Resa della fortezza. — Nuove mie occupazioni teatrali. — Visita importuna. — Rottura fra il residente e me.

Crema è una città della Repubblica di Venezia, governata da un nobile veneziano, col titolo di potestà, quarantotto leghe distante dalla capitale, e nove dalla città di Milano. Quivi il residente di Venezia era a portata di invigilare su gli avvenimenti e sui disegni delle potenze belligeranti senza compromettere la Repubblica, che era neutrale e che riconoscere non poteva i nuovi padroni del Milanese. Questo ministro però non era il solo che ne avesse l’incarico. Fu contemporaneamente spedito da Venezia e nella stessa città di Crema un senatore, col titolo di provveditore straordinario, ed ambidue facevano a gara i loro sforzi per avere corrispondenze, e per spedire al senato recenti e sicure notizie. Avevamo per conto nostro ogni giorno, dieci dodici e qualche volta venti lettere da Milano, Torino, Brescia, e da tutti i paesi di mezzo, ove si trattava di passaggio di truppe, di foraggi, di magazzini. Toccava a me ad aprirle, e farne gli estratti, confrontandole, e formando sopra ad esse un dispaccio ricavato dalle relazioni, che parevano le più uniformi e le meglio provate. Dopo questo lavoro il ministro faceva una scelta, vi univa le sue riflessioni, le sue osservazioni, onde qualche volta erano da noi spedite alla capitale quattro staffette in un giorno. Questo esercizio mi teneva, è vero, molto occupato, ma mi divertiva infinitamente. Mi ponevo così al fatto della politica e della diplomazia; cognizioni che mi furono poi utilissime, quando venni nominato, quattr’anni dopo, console di Genova a Venezia.

In capo a venti giorni di assedio, e quattro di breccia aperta, il castello di Milano fu costretto a capitolare ed a rendersi, avendo dimandati e ottenuti tutti gli onori militari, tamburo battente, bandiere spiegate, e carriaggi coperti fino a Mantova, luogo di riunione generale de’ Tedeschi, che non avevano ancora messe insieme forze bastanti per opporsi ai progressi de’ loro nemici. Gli eserciti alleati [p. 88 modifica]che profittavano del tempo favorevole, posero alcuni giorni dopo l’assedio a Pizzighettone, piccola città di frontiera nel cremonese, dove il Serio si unisce all’Adda: città benissimo difesa, e con una fortezza considerabilissima. Essendosi pertanto molto avvicinato a Crema il teatro della guerra, eravamo per conseguenza più a portata di prima di aver notizie, giacchè s’udivano assai distintamente le cannonate. Non durarono molto tempo le ostilità, perchè i Tedeschi, che aspettavano ordini da Vienna e da Mantova, chiesero un armistizio di tre giorni, che fu loro concesso senza la minima difficoltà. In tale occorrenza fui spedito in qualità di spione onorato al campo degli alleati. Non è possibile delineare esattamente il maraviglioso quadro di un campo di battaglia in armistizio; è la festa più magnifica, lo spettacolo più straordinario che mai si possa immaginare. Un ponte costrutto sulla breccia apre la comunicazione fra gli assedianti e gli assediati; si veggono ovunque tavole imbandite, gli uffiziali si regalano scambievolmente; dentro e fuori, sotto tende e sotto specie di baracche, si danno balli, banchetti, concerti; vi concorre tutta la gente dei contorni, a piedi, a cavallo, in calesse; vi si portano viveri da tutte le parti; vi regna nel momento l’abbondanza; vi concorrono ciarlatani, e giuocatori: insomma è una fiera piacevole, è un concorso deliziosissimo. Io ne godeva per qualche ora ogni giorno, e, nel terzo appunto, vidi uscire la guarnigione tedesca con gli onori medesimi stati concessi a quella di Milano. Mi divertivo molto a vedere i soldati francesi e piemontesi nell’uscire dalla piazza sotto le loro bandiere rimpiattarsi tra le file dei loro compatrioti e disertare impunemente. La sera, tornato a casa, facevo il rapporto al mio ministro di ciò che avevo veduto, e di ciò che avevo udito, e potevo assicurarlo per mezzo dei colloqui da me tenuti con alcuni uffiziali, che gli eserciti uniti dovevano andare ad accamparsi nei ducati di Parma e Piacenza per garantirli dalle incursioni che si potevano temere dalla parte dei Tedeschi. Il successo corrispose alle notizie che mi erano state date; gli alleati sfilarono a poco a poco verso il cremonese, e si stabilirono nei contorni di Parma, ove la duchessa, vedova regnante, alla testa della reggenza, governava i suoi stati. L’allontanamento delle truppe diminuì molto il mio lavoro, e mi diè ozio per dedicarmi ad occupazioni più piacevoli. Ripresi il mio Belisario, vi lavorai con assiduità e ardore, nè lo abbandonai se non quando lo credei finito, e quando mi parve di poterne esser contento. In questo mentre mio fratello, che, dopo la morte del signor Visinoni, aveva lasciato il servizio di Venezia, si era trasferito a Modena nella supposizione di essere impiegato dal duca; ma, non avendo potuto ottenere nulla per questa parte, venne ad unirsi meco a Crema. Lo ricevetti con amorevolezza, e lo presentai al signor residente. Questo ministro gli diede subito il posto di gentiluomo già da me occupato; ma se uno aveva la testa calda, l’altro l’aveva bollente, onde non potevano stare insieme. Fu dunque dal signor residente ringraziato, e se ne partì di mal umore. La cattiva condotta di mio fratello mi fece demeritare un pochino la stima del ministro. Non mi riguardava più da questo tempo in poi con l’istessa bontà ed amicizia. Si era acquistata la di lui confidenza un ipocrita domenicano, e quando io non era al palazzo s’impacciava di scrivere sotto la di lui dettatura. Tutto ciò mi aveva un poco alienato l’animo. Il mio superiore ed io non eravamo che due persone reciprocamente disgustate, e il caso che io sono per raccontare, cagionò finalmente la totale rottura. Era un giorno nella mia camera, quando mi si [p. 89 modifica]annunzia un forestiere che voleva parlarmi. Dico che si faccia entrare, e vedo un uomo magro, piccolo, zoppo, non troppo ben vestito, e con una fisonomia molto dubbia. Gli chiedo il nome: — Signore, egli dice, io sono il vostro servo Leopoldo Scacciati. — Ab! Ah! il signor Scacciati? — Certo; quello appunto che aveste la bontà di fare scarcerare, e di proteggere. — D’onde venite voi presentemente? — Da Milano. — E cosa fa la vostra signora nipotina? — Sta a maraviglia bene: voi la vedrete. — La vedrò? E dove mai? — Qui. — Ella è qui? — Sì, signore, all’albergo del Cervo, ove vi aspetta, e vi prega di venire a pranzo da lei — Piano, signor Scacciati: che avete voi fatto in tutto questo tempo in Milano? — Io vi conosceva molti uffiziali, ed essi mi facevano l’onore di venire a trovarmi. — A trovarvi? — Sì, signore, — E la signorina? — Oh! ella faceva gli onori della tavola... — Soltanto della tavola?... — Sopraggiunge uno staffiere, ed interrompe una conversazione, che avrei voluto prolungare un poco di più, dicendomi, che il ministro mi domandava. Pregai allora il signor Scacciati di trattenersi, ed avere la compiacenza di aspettarmi. Salgo: il signor residente mi presenta un manoscritto da copiare. Era il manifesto del re di Sardegna con le ragioni che lo avevano fatto piegare al partito dei Francesi. Questo quinterno era in quel caso prezioso, poichè l’originale era sotto il torchio a Torino, e conveniva spedirlo copiato a Venezia. Il ministro non desinava nè cenava in quel giorno al palazzo; onde ordinò che io gli portassi il manoscritto e la copia, la mattina dopo di levata. Il quaderno era molto voluminoso e male scritto, ciò nonostante bisognava sbrigarlo. Entro nel mio quartiere, avviso il signor Scacciati che non potevo in verun modo in quel giorno desinare in città, ma che bensì sarei andato a trovar la sua nipote la sera, appena avessi potuto. Mi fa intendere che la signorina deve partire speditamente. Ripeto le medesime parole con un atto d’impazienza, e lo zoppo fa una giravolta e se ne va. Mi metto subito all’opera; desino con una tazza di cioccolata, lavoro fino a nove ore della sera, termino, serro le due coppie nella mia segreteria, e me ne vado all’albergo del Cervo. Trovo la bella veneziana che faceva una partita di faraone con quattro signori che non conoscevo. Finiva appunto il taglio, quando entravo; tutti s’alzano, mi fanno molte garbatezze, si fa portare la cena, e mi si dà il posto di distinzione accanto alla signorina: avevo una fame disperata, e mangiai per quattro. Finita la cena, si riprende il giuoco. Io punto e vinco; non ardivo però di andarmene il primo. Si passa la notte giuocando. Guardo l’orologio, erano le sette ore della mattina. Vincevo sempre, ma non potendo trattenermi più, fo alla conversazione le mie scuse, e parto. Quattro passi lontano dall’albergo, incontro uno dei nostri staffieri. Il signor residente mi aveva fatto cercare per tutto; si era alzato a cinque ore, mi aveva fatto chiamare, e gli era stato detto che avevo dormito fuori del palazzo. Era nella maggior furia. Corro, entro in casa, vado nella mia camera, prendo i due quaderni, e li porto al ministro. Mi riceve malissimo, e sospetta insino, che io sia stato a comunicare il manifesto del re di Sardegna al provveditore straordinario della Repubblica di Venezia. Mi ferisce vivamente l’animo una simile accusa, e mi pone in desolazione. Mi lascio vincere contro il solito da un impulso di vivacità, e il ministro minaccia di farmi arrestare. Esco e vado a rifugiarmi in casa del vescovo della città, che prende le mie difese, e s’impegna di riconciliarmi col residente. Lo ringraziaii, poichè avevo già risoluto, nè altro volevo che giustificarmi, e partire. Il [p. 90 modifica] ministro ebbe tempo d’informarsi dove avevo passata la notte, e si era discreduto sul conto mio; io però non volli più espormi a simili disgusti, e gli chiesi il permesso di dimettermi. Me lo concesse, ed io gli feci le mie scuse, i miei ringraziamenti. Misi in ordine i miei fagotti, accaparrai un calesse per Modena, ove stava tuttavia mia madre, e tre giorni dopo partii.