Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXII
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CAPITOLO XXXII.
- Mio arrivo a Parma. — Terribile spavento dei Parmigiani. — Battaglia di Parma nel 1733. — Morte del general tedesco. — Veduta del campo dopo la battaglia. — Mutazione di viaggio. — Avvenimento dolorosissimo per me.
Giunto a Parma il dì 28 del mese di giugno, la vigilia di san Pietro del 1733, giorno memorabile per questa città, andai a prendere alloggio all’albergo del Gallo. La mattina uno spaventoso strepito mi sveglia. Balzo dal letto, apro la vetrata della mia camera, e vedo la piazza piena di gente: chi corre da una parte, chi corre dall’altra; alcuni si urtano, altri piangono, chi urla, chi è in desolazione; donne che portano i figli sulle braccia, altri che li strascinano sul terreno. Qua si vedono persone cariche di sporte, panieri, bauli e fagotti; là vecchi che cadono, malati in camicia, carrette sossopra, cavalli in fuga. Che cosa è questa, dicevo tra me: è questa forse la fine del mondo? mi metto sopra la camicia il mio gabbano, scendo in un baleno, entro in cucina, domando, fo delle ricerche, e nessuno mi risponde. L’albergatore ammassa la sua argenteria, e sua moglie tutta scapigliata tiene in mano un piccolo scrigno, ed altre robe nel grembiule; voglio parlare, ella mi serra la porta in faccia, e parte correndo. Che cosa è questa? che cosa è questa? Domando a tutti quelli che incontro. In questo mentre vedo un uomo all’ingresso della stalla, lo riconosco per il mio vetturino, e mi accosto a lui: egli era in grado di appagare la mia curiosità. — Ecco, signore, egli disse, tutta una città in ispavento, e non senza ragione: i Tedeschi sono alle porte, e se entrano, è inevitabile il saccheggio. Tutti si salvano nelle chiese: ciascuno porta i suoi capitali sotto la custodia di Dio. — Ma i soldati, io risposi, in simili casi daranno luogo alla riflessione? poi i Tedeschi son eglino tutti cattolici? — Mentre discorrevo così col mio conduttore, ecco che si muta scena: si ascoltan gridi di gioia, si suonano le campane per tutto, si tirano mortaletti. Tutti escono di chiesa, tutti riportano i loro beni: chi si cerca, chi s’incontra, chi s’abbraccia. E qual fu mai la cagione di questo cambiamento? Eccovene per l’intiero il racconto. Un doppio spione al soldo degli alleati, come pure a quello dei Tedeschi, era stato la notte precedente al campo dei primi nel villaggio di San Pietro, una lega distante dalla città, e aveva riferito che un distaccamento di truppe tedesche doveva foraggiare nei contorni di Parma, con intenzione di fare una sorpresa alla città. Il maresciallo di Covgni, che comandava allora l’esercito, distaccò due reggimenti, Piccardia e Champagne, e li spedì per fare una scoperta; ma siccome questo bravo generale non mancava mai di precauzione e di vigilanza, fece subito arrestare lo spione, di cui diffidava, e fece mettere tutto il campo in sull’armi. Non la sbagliò; giunti i due reggimenti alla vista delle fortificazioni della Città scoprirono l’esercito tedesco composto di quarantamila uomini condotto dal maresciallo di Mercy con dieci pezzi di artiglieria da campagna. Facendo i Francesi la loro marcia per la strada maestra attorniata da larghe fosse non potevano retrocedere: si avanzarono dunque bravamente, ma furono quasi tutti sbaragliati dall’artiglieria nemica. Questo fu appunto per il comandante francese il primo segnale della sorpresa. Lo spione fu impiccato sul fatto, e l’esercito si mise in marcia, raddoppiando il passo. La strada era angusta, e la cavalleria non poteva avanzarsi; la fanteria però caricò sì vigorosamente il nemico, che lo sforza a retrocedere: ed ecco il momento in cui lo spavento dei Parmigiani si convertì in giubilo. Tutti correvano allora sulle mura della città, ed io pure vi accorsi. Non si poteva vedere una battaglia più da vicino: il fumo impediva spesso di ben distinguere gli oggetti, era per altro sempre un colpo d’occhio rarissimo, che ben pochi possono darsi il vanto d’aver goduto. Il fuoco continuo durò nove ore senza interruzione, e finalmente la notte separò i due eserciti: i Tedeschi si dispersero nelle montagne di Reggio, e gli alleati restarono padroni del campo di battaglia. Il giorno dopo vidi condurre a Parma sopra una lettiga il maresciallo di Mercy ucciso nel calor della battaglia. Fu imbalsamato e mandato in Germania, e così fu fatto al principe di Wittemberg che aveva incontrato l’istessa sorte. Il dì seguente però a mezzo giorno si offrì agli occhi miei uno spettacolo molto più orribile e più disgustoso. Lo formavano i cadaveri, ch’erano stati spogliati nella notte, e si facevano ascendere a venticinquemila, tutti nudi ed ammontati. Si vedevano ovunque gambe, braccia, cranii, e sangue. Che eccidio!
Attesa la difficoltà di sotterrare tutti questi corpi trucidati, i Parmigiani temevano di un’infezione dell’aria; ma la Repubblica di Venezia, che è quasi limitrofa ai domimi parmigiani, ed interessata perciò a garantire la salubrità dell’aria, spedì calcina in grand’abbondanza, a fine di sgombrare dalla superficie della terra tutti i cadaveri. Il terzo giorno dopo la battaglia volevo continuare il mio viaggio per Modena, ma il vetturino mi fece avvertire che le strade per quella parte erano divenute impraticabili, a motivo delle continue scorrerie delle truppe dei due partiti, aggiungendo che se volevo andare a Milano sua patria, mi ci avrebbe condotto; e se a Brescia, conosceva un suo compagno, che era per partire per questa città con un abate, di cui appunto potevo esser compagno di viaggio. Accettai quest’ultima proposizione, convenendomi più Brescia, e partii il giorno dopo col signor abate Garoffini, giovine coltissimo, e gran dilettante di spettacoli.
Per strada si parlò molto; e siccome io pure avevo la malattia degli autori, non lasciai di tenergli discorso del mio Belisario. L’abate pareva desideroso di sentirlo, onde nel primo desinare levai dal baule la mia composizione, e ne cominciai la lettura. Non avevo peranche terminato il primo atto, quando il vetturino venne a sollecitarci a partire. L’abate ne era dolente, perchè ci aveva preso un po’ di gusto: Su via, io dissi allora, leggerò in vettura in egual modo che qui. Riprendiamo ognuno nel calesse i nostri posti: e siccome i vetturini vanno per lo più di passo, continuai la lettura senza la minima difficoltà. Mentre eravamo entrambi occupati, si ferma il calesse, e vediamo avanti a noi cinque persone con baffi, montura e sciabola in mano, che ci comandano di scendere. Conveniva egli recalcitrare agli ordini di questi signori? Scendo dalla mia parte, l’abate dall’altra; uno di essi mi chiede la borsa, ed io gliela do senza farmi pregare; un altro mi strappa l’orologio, un terzo fruga nelle mie tasche, e mi prende la tabacchiera che era di semplice tartaruga. Gli altri due fecero l’istesso all’abate; e tutti cinque poi diedero addosso alle valigie, al mio piccolo baule, e ai nostri sacchi da notte. Quando il vetturino si vide scarico, fece prendere il galoppo ai suoi cavalli, e io presi il mio; saltai una fossa molto larga, e mi salvai attraversando i campi sempre col timore che questa canaglia volesse far guerra anche al mio pastrano, al mio vestito, ai miei calzoni, alla mia vita; conoscendomi fortunato abbastanza per esserne uscito col mezzo del mio danaro e de’ miei capitali, come pure per aver salvato dal naufragio il mio Belisario. Avendo perduti di vista gli aggressori, e non sapendo che cosa fosse del mio compagno di viaggio, trovai un viale d’alberi e mi riposai tranquillamente presso un ruscello, servendomi del concavo della mano per attingere acqua da dissetarmi, che trovai deliziosa. Riposato, e messo un poco in calma il mio spirito, non scorgendo persona alla quale indirizzarmi, mi incamminai alla ventura per il viale, essendo persuaso dover esso far capo a qualche luogo abitato. Non stetti molto ad incontrare dei contadini che lavoravano le loro campagne: mi avvicinai confidentemente, e feci loro il racconto del mio avvenimento. Ne avevano già qualche notizia, avendo veduti passare i malvagi dai quali ero stato spogliato, per una strada traversa, carichi come muli. Erano disertori, che assalivano i passeggieri non risparmiandola nè ai villaggi nè alle fattorie. Ecco i frutti disgraziati della guerra, che vanno a ferire indistintamente gli amici ed i nemici, e pongono in desolazione gl’innocenti. — Come mai, io dissi, come possono questi assassini disfarsi impunemente degli oggetti derubati senza essere arrestati? — A questa domanda tutti quei contadini volevano rispondermi in una volta e la loro impazienza manifestava appunto il loro sdegno. Eravi a poca distanza del luogo, ove noi ci trovavamo, una società di persone ricche, tollerata per l’oggetto di comprare le spoglie delle vittime della guerra, e i compratori non stavano ad esaminare se le robe portate loro provenivano dal campo di battaglia o dalla strada maestra. Era per tramontare il sole. Questa buona gente mi esibì un piccolo avanzo della loro merenda, che malgrado la mia sciagura fu da me assaporata con molto appetito, proponendomi nel tempo istesso di andare a passare la notte nella loro casa. Ero per accettar con riconoscenza l’ospitalità da questa buona gente offertami, ma un rispettabil vecchio, capo della famiglia, e nonno de’ miei benefattori, mi avvertì che in casa loro non vi era che paglia e fieno per riposarsi, ed era per ciò meglio condurmi a Casalpusterlengo, di lì distante una lega, dove il curato, uomo garbatissimo e pieno di compiacenza, si sarebbe fatto un piacere di accogliermi e darmi alloggio. Tutti applaudirono alla di lui proposizione. Uno di quei giovani s’incaricò di condurmivi; ed io lo seguitai benedicendo il cielo, che tollera da una parte i malvagi, ed anima dall’altra i cuori sensibili e virtuosi.