nunzia un forestiere che voleva parlarmi. Dico che si faccia entrare, e vedo un uomo magro, piccolo, zoppo, non troppo ben vestito, e con una fisonomia molto dubbia. Gli chiedo il nome: — Signore, egli dice, io sono il vostro servo Leopoldo Scacciati. — Ab! Ah! il signor Scacciati? — Certo; quello appunto che aveste la bontà di fare scarcerare, e di proteggere. — D’onde venite voi presentemente? — Da Milano. — E cosa fa la vostra signora nipotina? — Sta a maraviglia bene: voi la vedrete. — La vedrò? E dove mai? — Qui. — Ella è qui? — Sì, signore, all’albergo del Cervo, ove vi aspetta, e vi prega di venire a pranzo da lei — Piano, signor Scacciati: che avete voi fatto in tutto questo tempo in Milano? — Io vi conosceva molti uffiziali, ed essi mi facevano l’onore di venire a trovarmi. — A trovarvi? — Sì, signore, — E la signorina? — Oh! ella faceva gli onori della tavola... — Soltanto della tavola?... — Sopraggiunge uno staffiere, ed interrompe una conversazione, che avrei voluto prolungare un poco di più, dicendomi, che il ministro mi domandava. Pregai allora il signor Scacciati di trattenersi, ed avere la compiacenza di aspettarmi. Salgo: il signor residente mi presenta un manoscritto da copiare. Era il manifesto del re di Sardegna con le ragioni che lo avevano fatto piegare al partito dei Francesi. Questo quinterno era in quel caso prezioso, poichè l’originale era sotto il torchio a Torino, e conveniva spedirlo copiato a Venezia. Il ministro non desinava nè cenava in quel giorno al palazzo; onde ordinò che io gli portassi il manoscritto e la copia, la mattina dopo di levata. Il quaderno era molto voluminoso e male scritto, ciò nonostante bisognava sbrigarlo. Entro nel mio quartiere, avviso il signor Scacciati che non potevo in verun modo in quel giorno desinare in città, ma che bensì sarei andato a trovar la sua nipote la sera, appena avessi potuto. Mi fa intendere che la signorina deve partire speditamente. Ripeto le medesime parole con un atto d’impazienza, e lo zoppo fa una giravolta e se ne va. Mi metto subito all’opera; desino con una tazza di cioccolata, lavoro fino a nove ore della sera, termino, serro le due coppie nella mia segreteria, e me ne vado all’albergo del Cervo. Trovo la bella veneziana che faceva una partita di faraone con quattro signori che non conoscevo. Finiva appunto il taglio, quando entravo; tutti s’alzano, mi fanno molte garbatezze, si fa portare la cena, e mi si dà il posto di distinzione accanto alla signorina: avevo una fame disperata, e mangiai per quattro. Finita la cena, si riprende il giuoco. Io punto e vinco; non ardivo però di andarmene il primo. Si passa la notte giuocando. Guardo l’orologio, erano le sette ore della mattina. Vincevo sempre, ma non potendo trattenermi più, fo alla conversazione le mie scuse, e parto. Quattro passi lontano dall’albergo, incontro uno dei nostri staffieri. Il signor residente mi aveva fatto cercare per tutto; si era alzato a cinque ore, mi aveva fatto chiamare, e gli era stato detto che avevo dormito fuori del palazzo. Era nella maggior furia. Corro, entro in casa, vado nella mia camera, prendo i due quaderni, e li porto al ministro. Mi riceve malissimo, e sospetta insino, che io sia stato a comunicare il manifesto del re di Sardegna al provveditore straordinario della Repubblica di Venezia. Mi ferisce vivamente l’animo una simile accusa, e mi pone in desolazione. Mi lascio vincere contro il solito da un impulso di vivacità, e il ministro minaccia di farmi arrestare. Esco e vado a rifugiarmi in casa del vescovo della città, che prende le mie difese, e s’impegna di riconciliarmi col residente. Lo ringraziaii, poichè avevo già risoluto, nè altro volevo che giustificarmi, e partire. Il