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capitolo xxxi 87


domando del signor Leopoldo Scacciati, ch’era lo zio in questione. Non vi era più; le mie raccomandazioni avevano anticipato la sua scarcerazione: era uscito il dì precedente al mio arrivo, ed era partito per Milano. Quest’uomo che non poteva avere il minimo sentore della mia partenza da questa città, come mai avrebbe fatto a ritrovar la signorina Biondi in un paese sì vasto, e così popolato? Questa riflessione mi dava somma inquietudine: scrissi al mercante genovese, scrissi al signor Carrara, ed ecco a un dipresso la risposta di quest’ultimo: «Il vostro Leopoldo Scacciati è giunto a Milano, ed è venuto al palazzo, credendo di trovarvi. Il guardaportone lo ha fatto salire: mi ha parlato, ed ha reclamato la sua nipote. Io l’ho condotto in casa del genovese, ed ho creduto di rendervi un servigio grandissimo, facendogli consegnare questa giovine, che vi era a carico, e che non ne meritava la pena». Lontano da quest’oggetto incantatore, dovei confessare che il mio amico si era portato benissimo, e non avendo dopo ricevuto notizia alcuna nè della giovine nè di suo zio, la loro ingratitudine mi dispiacque, molto però leggiermente. Posi in dimenticanza l’una e l’altro, e mi diedi seriamente ad adempiere i doveri della mia carica.

CAPITOLO XXXI.

Resa del castello di Milano. — Assedio di Pizzighettone. — Armistizio. — Resa della fortezza. — Nuove mie occupazioni teatrali. — Visita importuna. — Rottura fra il residente e me.

Crema è una città della Repubblica di Venezia, governata da un nobile veneziano, col titolo di potestà, quarantotto leghe distante dalla capitale, e nove dalla città di Milano. Quivi il residente di Venezia era a portata di invigilare su gli avvenimenti e sui disegni delle potenze belligeranti senza compromettere la Repubblica, che era neutrale e che riconoscere non poteva i nuovi padroni del Milanese. Questo ministro però non era il solo che ne avesse l’incarico. Fu contemporaneamente spedito da Venezia e nella stessa città di Crema un senatore, col titolo di provveditore straordinario, ed ambidue facevano a gara i loro sforzi per avere corrispondenze, e per spedire al senato recenti e sicure notizie. Avevamo per conto nostro ogni giorno, dieci dodici e qualche volta venti lettere da Milano, Torino, Brescia, e da tutti i paesi di mezzo, ove si trattava di passaggio di truppe, di foraggi, di magazzini. Toccava a me ad aprirle, e farne gli estratti, confrontandole, e formando sopra ad esse un dispaccio ricavato dalle relazioni, che parevano le più uniformi e le meglio provate. Dopo questo lavoro il ministro faceva una scelta, vi univa le sue riflessioni, le sue osservazioni, onde qualche volta erano da noi spedite alla capitale quattro staffette in un giorno. Questo esercizio mi teneva, è vero, molto occupato, ma mi divertiva infinitamente. Mi ponevo così al fatto della politica e della diplomazia; cognizioni che mi furono poi utilissime, quando venni nominato, quattr’anni dopo, console di Genova a Venezia.

In capo a venti giorni di assedio, e quattro di breccia aperta, il castello di Milano fu costretto a capitolare ed a rendersi, avendo dimandati e ottenuti tutti gli onori militari, tamburo battente, bandiere spiegate, e carriaggi coperti fino a Mantova, luogo di riunione generale de’ Tedeschi, che non avevano ancora messe insieme forze bastanti per opporsi ai progressi de’ loro nemici. Gli eserciti alleati