Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXX
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CAPITOLO XXX.
- Incontro di una Veneziana. — Milano sorpresa dalle armi dei re di Sardegna. — Mio imbroglio a motivo della guerra e della Veneziana. — Ritorno del residente da Venezia a Milano. — Sua e mia partenza per Crema.
Passeggiando un giorno in campagna verso Porta Tosa col signor Carrara, gentiluomo bergamasco e mio intimo amico, ci fermammo alla famosa osteria della Cazzuola che i Milanesi pronunziano cazzeula, perchè i Lombardi hanno il dittongo eu come i Francesi, e lo pronunziano in egual modo. Non si fanno in Milano passeggiate, nè si mette insieme un divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia. Per questa ragione appunto i Fiorentini, che generalmente son sobri ed economi, chiamano i Milanesi lupi lombardi. Ordinammo il Carrara ed io una piccola merenda, consistente in una polpettina, ciò è polpette di carne battuta, con alcuni uccelletti e gamberi; ed aspettando che fosse lesta la colazione, si fece una girata per il giardino. Al ritorno, nel passar dalla parte della cucina dell’osteria, vidi a una finestra del primo piano un bellissimo visetto che fingeva di nascondersi dietro la tenda. Corro subito a prenderne notizia. L’oste non conosceva punto la persona. Vi era giunta fino da tre giorni per la posta in compagnia di un uomo in buono arnese, che si allontanò da lei il giorno dopo; nè più era ricomparso. Si vedeva esser nel maggior cordoglio e si supponeva veneziana. Giovine, bella veneziana ed afflitta! Andiamo, io dissi al compagno, bisogna portarsi a consolarla. — Salgo, e Carrara mi vien dietro: picchio; la bella non vuole aprire, parlo veneziano, e mi manifesto per un uomo addetto al residente di Venezia. Apre allora i due battenti della porta, e mi riceve struggendosi in lacrime e nella massima desolazione.
Che spettacolo attraente e da far colpo! Una bella donna che piange ha certamente qualche diritto sopra un animo sensibile. Dividevo con lei le sue pene, facevo il possibile per porla in calma, ed il mio amico Carrara se la rideva. Che uomo duro! Come poteva egli ridere? Io era di cera, e mi inteneriva un momento più dell’altro. Giunsi finalmente ad asciugar le lagrime dell’amata mia compatriota ed a farla parlare. Era, per quello che mi disse, una fanciulla di buonissima casa di Venezia, divenuta amante di una persona di condizione superiore alla sua. Aveva concepita la speranza di farsene uno sposo; ma avendo trovato opposizioni da ogni parte, non vide altro scampo che quello di andare in paese straniero. Aveva fatto la sua confidenza ad uno zio materno che l’amava molto, e che ebbe la debolezza di secondarla. Si erano dati tutti e tre alla fuga, avevano preso la strada di Milano, ed erano passati per Crema. Furono inseguiti, e raggiunti in questa città! lo zio fu arrestato, e condotto in carcere, e i due amanti ebbero la fortuna di salvarsi. Arrivati a Milano di notte, avevano preso alloggio nell’osteria ove noi eravamo; il di lei amante era escito la mattina di buonissima ora per cercare un quartiere in città, ma non era più ritornato. Erano oramai tre giorni che la signorina si trovava sola e fuori di speranza di rivedere il suo rapitore, il suo indegno seduttore; e intanto le lacrime raddoppiate di questa languente bellezza compiono il racconto, ed eccitano al colmo la mia sensibilità. Carrara che non rideva più, ma era bensì irritato che la lunga nenia c’impedisse di merendare, mi fece riflessioni estremamente patetiche sopra il suo appetito. Il cuore non mi permetteva di lasciare la mia compatriotta senza fissar con lei qualche provvedimento. La pregai pertanto, per accontentare il ghiotto compagno, di permettermi di far portare la nostra merenda nella sua camera; ella vi acconsentì con buona maniera, e fummo serviti. Mentre eravamo a tavola io continuava il colloquio con la signorina, e Carrara mangiava sempre e si burlava di me. Incominciava a farsi sera e conveniva partire; presi pertanto congedo dalla mia bella compatriotta, le promisi di tornare a vederla il giorno dopo, ed augurandole affettuosamente la buona sera, la pregai di confidarmi il suo nome. Parve che su questo punto ella avesse qualche difficoltà; ma finalmente mi disse all’orecchio che si chiamava Margherita Biondi. Seppi dipoi, che ella non era nè Margherita, nè Biondi, nè nipote, nè fanciulla; ma era giovine, bella amabile, aveva l’aria civile, ed io era in buona fede. Potevo mai abbandonarla nel cordoglio e nell’afflizione? Nel ritorno alla città, bisognò sopportare tutte le beffe e corbellature di Carrara; ciò peraltro non m’impedì di mantener la parola alla bella forestiera. Le trovai un bellissimo appartamento tutto mobiliato e di buon’aria sulla piazza d’Armi, andai a desinar seco il giorno dopo, e la condussi in una buona carrozza a prender possesso del nuovo quartiere. Mi pregò di adoprarmi a favore di suo zio per farlo escire di prigione, di farne parola col residente di Venezia al suo ritorno in Milano, come pure d’indurre questo ministro ad aggiustare i di lei affari con i suoi genitori, nè seppi negarle nulla. Andavo a trovarla spessissimo, e la sua compagnia mi riesciva gradita un giorno più dell’altro. Ero contentissimo del mio stato, e quest’ultima avventura aumentava le delizie della mia condizione; ma io non era fatto per goder lungo tempo di una felicità, qualunque ella fosse. I piaceri ed i disgusti si succedevano per me rapidamente; ed il giorno nel quale io godeva di più era quasi il punto di un imminente e disgraziato avvenimento. Entra una mattina in camera di buonissima ora il mio servitore, apre le cortine, e vedendomi sveglio: — Ah! signore, mi disse, ho una gran nuova da darvi. Quindici mila Savoiardi, tanto a piedi come a cavallo, vengono ad impadronirsi della città, e si vedono schierati sopra la piazza del Duomo. — Sbalordito da questa novità così inaspettata, feci cento interrogazioni in un tratto al mio staffiere, che non sapeva dirmi altro. Mi vesto in fretta, esco e vado al caffè. Dieci persone mi parlano tutte in un tempo, ognuno vuol essere il primo ad informarmi. Vi erano diverse opinioni, ma ecco il fatto. Cominciata la guerra del 1733, chiamata la Guerra di don Carlo, il re di Sardegna si dichiarava del partito di questo principe, e riuniva le sue armi a quelle della Francia e della Spagna, contro la casa d’Austria. I Savoiardi, che avean fatto la loro marcia di notte, comparvero sul far del giorno alle porte di Milano; il generale chiese le chiavi della città, e poichè Milano è troppo vasta per porsi in istato di difesa, gli furono portate le chiavi. Senza internarmi di più nella cosa, credetti di saperne abbastanza per darne subito parte al mio residente. Rientro in casa, scrivo, spedisco un espresso a Venezia, e tre giorni dopo torna il ministro alla sua residenza. Non tardarono frattanto a comparire anche le truppe francesi, ed a riunirsi alle sarde loro alleate, mettendo insieme quell’esercito formidabile, che gl’Italiani chiamavano l’esercito dei Gallo-Sardi.
Disponendosi dunque gli alleati a far l’assedio del castello di Milano, fecero gli approcci per mettersi in istato di battere la fortezza, onde gli abitanti della piazza d’Armi furono obbligati a sloggiare. La mia povera veneziana, che si trovava in questo numero, mi fece avvertire del suo turbamento: vi accorsi subito, la feci escir prontamente, e non volendo collocarla in un quartiere appartato, fui forzato ad affidarla ad un mercante genovese, in casa del quale non potevo vederla che in mezzo ad una famiglia numerosa, ed eccessivamente inquieta. Gli assedianti formarono subito le loro trincee, e le loro strade coperte: l’assedio si eseguiva col maggior ardore, le batterie dei cannoni facevano le loro scariche giorno e notte, e ad essi rispondevano quelli della fortezza, venendo talvolta a farci visita in città qualche bomba mal diretta. Pochi giorni dopo un corriere della Repubblica di Venezia portò al mio ministro una lettera ducale in cartapecora con sigillo di piombo con ordine di partir da Milano, e di andare per tutto il tempo della guerra a stabilire la sua residenza in Crema. Mi partecipò subito il signor residente tal notizia: profittò di questa occasione per disfarsi del segretario, che non gli andava a genio, mi affidò questa onorevole e lucrosa commissione, e mi ordinò di star pronto per il giorno dopo. Siccome avevamo bisogno in Milano di un corrispondente nel tempo della nostra assenza, proposi il mio amico Carrara, che fu approvato dal ministro, e venne perciò ad abitare nel nostro palazzo. Preparai subito i miei fagotti, ammassai i miei fogli, ed andai a far le mie dipartenze con la bella veneziana che piangeva, ch’era in timore e nella maggior desolazione. Mi raccomanda vivamente suo zio, appunto in carcere a Crema: procuro di consolarla, e do del danaro tanto a lei quanto al suo albergatore: questo complimento parve che contribuisse molto a porla in calma. Ci abbracciamo, poi torno a casa e parto col ministro sul far del giorno. Arrivato a Crema, la mia prima premura fu di portarmi alle carceri; domando del signor Leopoldo Scacciati, ch’era lo zio in questione. Non vi era più; le mie raccomandazioni avevano anticipato la sua scarcerazione: era uscito il dì precedente al mio arrivo, ed era partito per Milano. Quest’uomo che non poteva avere il minimo sentore della mia partenza da questa città, come mai avrebbe fatto a ritrovar la signorina Biondi in un paese sì vasto, e così popolato? Questa riflessione mi dava somma inquietudine: scrissi al mercante genovese, scrissi al signor Carrara, ed ecco a un dipresso la risposta di quest’ultimo: «Il vostro Leopoldo Scacciati è giunto a Milano, ed è venuto al palazzo, credendo di trovarvi. Il guardaportone lo ha fatto salire: mi ha parlato, ed ha reclamato la sua nipote. Io l’ho condotto in casa del genovese, ed ho creduto di rendervi un servigio grandissimo, facendogli consegnare questa giovine, che vi era a carico, e che non ne meritava la pena». Lontano da quest’oggetto incantatore, dovei confessare che il mio amico si era portato benissimo, e non avendo dopo ricevuto notizia alcuna nè della giovine nè di suo zio, la loro ingratitudine mi dispiacque, molto però leggiermente. Posi in dimenticanza l’una e l’altro, e mi diedi seriamente ad adempiere i doveri della mia carica.