che profittavano del tempo favorevole, posero alcuni giorni dopo l’assedio a Pizzighettone, piccola città di frontiera nel cremonese, dove il Serio si unisce all’Adda: città benissimo difesa, e con una fortezza considerabilissima. Essendosi pertanto molto avvicinato a Crema il teatro della guerra, eravamo per conseguenza più a portata di prima di aver notizie, giacchè s’udivano assai distintamente le cannonate. Non durarono molto tempo le ostilità, perchè i Tedeschi, che aspettavano ordini da Vienna e da Mantova, chiesero un armistizio di tre giorni, che fu loro concesso senza la minima difficoltà. In tale occorrenza fui spedito in qualità di spione onorato al campo degli alleati. Non è possibile delineare esattamente il maraviglioso quadro di un campo di battaglia in armistizio; è la festa più magnifica, lo spettacolo più straordinario che mai si possa immaginare. Un ponte costrutto sulla breccia apre la comunicazione fra gli assedianti e gli assediati; si veggono ovunque tavole imbandite, gli uffiziali si regalano scambievolmente; dentro e fuori, sotto tende e sotto specie di baracche, si danno balli, banchetti, concerti; vi concorre tutta la gente dei contorni, a piedi, a cavallo, in calesse; vi si portano viveri da tutte le parti; vi regna nel momento l’abbondanza; vi concorrono ciarlatani, e giuocatori: insomma è una fiera piacevole, è un concorso deliziosissimo. Io ne godeva per qualche ora ogni giorno, e, nel terzo appunto, vidi uscire la guarnigione tedesca con gli onori medesimi stati concessi a quella di Milano. Mi divertivo molto a vedere i soldati francesi e piemontesi nell’uscire dalla piazza sotto le loro bandiere rimpiattarsi tra le file dei loro compatrioti e disertare impunemente. La sera, tornato a casa, facevo il rapporto al mio ministro di ciò che avevo veduto, e di ciò che avevo udito, e potevo assicurarlo per mezzo dei colloqui da me tenuti con alcuni uffiziali, che gli eserciti uniti dovevano andare ad accamparsi nei ducati di Parma e Piacenza per garantirli dalle incursioni che si potevano temere dalla parte dei Tedeschi. Il successo corrispose alle notizie che mi erano state date; gli alleati sfilarono a poco a poco verso il cremonese, e si stabilirono nei contorni di Parma, ove la duchessa, vedova regnante, alla testa della reggenza, governava i suoi stati. L’allontanamento delle truppe diminuì molto il mio lavoro, e mi diè ozio per dedicarmi ad accupazioni più piacevoli. Ripresi il mio Belisario, vi lavorai con assiduità e ardore, nè lo abbandonai se non quando lo credei finito, e quando mi parve di poterne esser contento. In questo mentre mio fratello, che, dopo la morte del signor Visinoni, aveva lasciato il servizio di Venezia, si era trasferito a Modena nella supposizione di essere impiegato dal duca; ma, non avendo potuto ottenere nulla per questa parte, venne ad unirsi meco a Crema. Lo ricevetti con amorevolezza, e lo presentai al signor residente. Questo ministro gli diede subito il posto di gentiluomo già da me occupato; ma se uno aveva la testa calda, l’altro l’aveva bollente, onde non potevano stare insieme. Fu dunque dal signor residente ringraziato, e se ne partì di mal umore. La cattiva condotta di mio fratello mi fece demeritare un pochino la stima del ministro. Non mi riguardava più da questo tempo in poi con l’istessa bontà ed amicizia. Si era acquistata la di lui confidenza un ipocrita domenicano, e quando io non era al palazzo s’impacciava di scrivere sotto la di lui dettatura. Tutto ciò mi aveva un poco alienato l’animo. Il mio superiore ed io non eravamo che due persone reciprocamente disgustate, e il caso che io sono per raccontare, cagionò finalmente la totale rottura. Era un giorno nella mia camera, quando mi si an-