Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XVI

XVI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XVI.

Mie serie occupazioni. — Teresa: aneddoto piacevole.


Mio padre esercitava a Udine la sua professione, ed io vi ripresi il corso de’ miei studii. Il signor Morelli, celebre giureconsulto dava in casa propria un corso di gius civile e canonico per istruzione di uno de’ suoi nipoti. Ammetteva alle sue lezioni anche persone del paese, ed io pure ebbi la fortuna di essere in quel numero. Confesso che profittai più in sei mesi di tempo in questa occasione, di quello che non avevo fatto in tre anni a Pavia.

Avevo molta voglia di studiare, ma, essendo giovine, mi abbisognava qualche distrazione piacevole; cercai però divertimenti, e ne trovai di differenti specie. Ora voglio render conto di quelli che mi hanno dato molto piacere, e nel tempo stesso molto onore, e terminerò con altri, che non mi hanno dato nè onore, nè piacere. Avevamo passato un carnevale molto patetico e disgustoso, a cagione d’un orribile avvenimento che aveva messo la città in costernazione. Un gentiluomo di antica e ricca casa era stato ucciso con una fucilata nell’uscire dalla commedia; non si conosceva l’autore dell’omicidio; vi erano dei sospetti, ma niuno ardiva parlarne. Viene la quaresima. Vado il giorno delle ceneri ad ascoltare il padre Cataneo agostiniano riformato, e trovo ammirabile la sua predica. Esco di chiesa, ritengo a memoria parola per parola i tre punti della sua divisione; procuro di riunire in quattordici versi il suo argomento, la sua condotta, e la sua morale, e credo di aver fatto un sonetto assai passabile. Mi porto il giorno medesimo a farlo sentire al signor Treo, gentiluomo d’Udine eruditissimo in belle lettere, e di sommo gusto per la poesia; egli pure trovò assai passabile il mio sonetto. Mi fece bensì il favore di correggere qualche parola, e mi incoraggì a farne altri. Tenni sempre dietro con esattezza al mio predicatore: feci ogni giorno l’istesso lavoro, e mi trovai alla terza festa di Pasqua con la compilazione di trentasei prediche eccellenti in trentasei sonetti fra buoni e cattivi. Avevo preso la precauzione di mandarli al torchio, tostochè avevo messo insieme materie sufficienti per un foglio in quarto; onde nell’ottava di Pasqua pubblicai il mio libretto alla rustica, dedicato ai deputati della città. Molti ringraziamenti per parte dell’oratore, molta riconoscenza per parte dei primari magistrati; insomma molti applausi. La novità piacque, e la rapidità del lavoro fece stupire anche di più. Bravo Goldoni! Ma piano: non gli profondete ancora i vostri elogi. Stava lungi quattro passi dalla mia porta una certa giovine, che mi piaceva infinitamente, ed alla quale avrei fatto volentieri la mia corte. Convien egli, mio caro lettore, che io vi faccia il ritratto della mia bella? che io le dia un colorito di rose, e di gigli, i lineamenti di Venere, l’ingegno di Minerva? No, questi bei ragguagli non v’importerebbero. Mi trattengo con voi nel mio studiolo, come mi tratterrei in conversazione. La materia delle mie Memorie non merita [p. 45 modifica] nè maggiore eleganza, nè maggiore industria. Vi sono alcuni, che dicono, bisogna elevarsi; il pubblico merita rispetto: io credo di rispettarlo benissimo tutte le volte che presento ad esso la verità nuda e senza orpello. Non conoscevo che di nome i genitori della signorina; la vedevo alla finestra, la seguitavo alla chiesa ed al passeggio modestissimamente, nè mancavo di darle qualche segno della mia inclinazione. Non so se ella se ne accorgesse, ma la sua cameriera non tardò molto a scoprirmi. Un giorno questa maligna venne a trovarmi: mi parlò molto di sè stessa e della sua padrona, e mi assicurò che io potevo contare e sull’una e sull’altra. Domandai se potevo arrischiarmi a scrivere... — Sì, mi disse, senza lasciarmi finire, scrivete pure alla mia padroncina; prendo l’impegno io di dare alla medesima la vostra lettera, e di portarvi la risposta. — Veramente volevo scriver nell’atto, e la pregai di aspettare. — Ma no, mi disse, vado alla santa Messa, non la lascio mai, ci vado ogni giorno, ma tornerò nell’escire di chiesa. — Ella parte, ed io scrivo la mia lettera, nella quale dopo i complimenti d’etichetta, e le solite espressioni di tenerezza, chiedo a madamina un rendez-vous nelle regole. Ritorna Teresa (questo era il nome della cameriera), prende la lettera, e nell’atto di partire mi presenta la guancia. Non vi è l’uso in Italia di baciare le donne così innocentemente come in Francia, e poi era brutta da far paura; ricusai dunque sin che potei, ma mi saltò al collo, e bisognò ad ogni costo baciarla. Due giorni dopo incontrandomi Teresa per strada, mi porse con destrezza un foglio, che misi subito in tasca. Era una lettera della signorina C*** in replica alla mia; la trovai però sì male scritta, che stentai molto a raccapezzarvi qualche cosa. Rilevai a un dipresso, che non poteva ricevermi in casa senza il consenso dei suoi genitori, e che se volevo parlare dalla strada di notte, sarebbe stata qualche quarto d’ora alla finestra per sentirmi. In Italia è uso antico fare all’amore al sereno; bisognava uniformarmi. L’istesso giorno capitatovi a un’ora avanti l’alba vidi aprirsi l’imposta della finestra, e vidi comparire una testa in cuffia da notte; parlavo a questa testa, e questa testa mi rispondeva; di tanto in tanto io diceva dell’espressioni affettuose, e mi si rispondeva sull’istesso tono. Incoraggito dalla facilità che credevo scorgervi, vado un passo più avanti, quando tutto in un tratto sento uno scroscio di risa, e vedo chiudersi la finestra. Non intendevo che affare fosse questo; me ne torno a casa soddisfatto da una parte, malcontento dall’altra. Conviene aspettar Teresa. La vedo il giorno dopo, mentre mio padre era in casa. Scendo, raggiungo la devota sulla piazza della cattedrale, e la interrogo sopra la risata della notte scorsa. — Voi avete dette, ella rispose, graziosissime lepidezze; la mia padrona ci ha riso, poichè non è bigotta, ma risovvenendosi della sua verecondia, ha chiuso la finestra. Seguitate, seguitate, ella soggiunse, e non temete. — Aveva qualche altra cosa da dirle; ma orsù, ella riprese, è tardi, non voglio perder la Messa.

Vedevo bene, che la Messa andava mal d’accordo col mestiere di mezzana, e costei non poteva essere che una civetta, com’era di fatto in tutto il rigor del termine. Ma, essendo io innamorato, credei di dovermela seco passar bene, e continuai per qualche tempo le mie conversazioni notturne; ma non più alla medesima finestra ove compariva la testa in cuffia da notte, bensì ad un’altra molto distante. Ne chiesi la ragione. La signorina temeva la vicinanza della signora madre, ed ero perciò più riservato nei miei discorsi: ma mi si lanciava di tempo in tempo qualche espressione un poco [p. 46 modifica] libera, ed io con facilità ribadivo. Si udivano i soliti scrosci di risa, ma la finestra non si chiudeva più. Un giorno nel quale stimolavo Teresa perchè mi procurasse un abboccamento diurno con la sua padrona, minacciandola di abbandonare tutto se non l’ottenevo: — State quieto, ella mi disse, vi penso al pari di voi; parlerò alla lavandaia di casa, che sta a Chiavris distante un mezzo miglio, ed è questo appunto il luogo ove spero di potervi rendere contento. Ma sentite, sentite, ella soggiunse, voi dovete conoscere le signorine; esse son capricciose; ve ne son poche, che siano capaci di un perfetto disinteresse, e la mia padrona non è delle più generose: se voi voleste farle un regaluccio, credo che quest’attenzione avvantaggerebbe molto il vostro affare. — Come, io dissi, ella accetterebbe un regalo?... — Non da voi, riprese la strega, ma se glielo presentassi io, ella non lo ricuserebbe... — E che cosa potrei io darle?... — Ieri... vedete, non più lontano di ieri, la padroncina mi dimostrò il più gran desiderio di avere un finimento di quelle gioie di Vienna colorite, che sono ora di moda, e che tutte le donne vogliono avere. — Dove si vendono? — Oh! non ce ne sono di belle in questo paese, bisognerebbe farle venire da Venezia: un finimento completo, croce, orecchini, collana e spilli. — Ma cara mia Teresa, avete voi sentita Messa? — Non ancora. — Andateci. — Come? ricusereste forse di obbligare una giovane amabile e graziosa, che voi amate, per la quale avete stima, e potreste un giorno possedere? — Flemma, flemma: v’intendo; avrò il finimento, e ve lo darò in proprie mani. — Ed io lo presenterò alla padroncina, e voi la vedrete ornata con le gioie del suo caro Goldoni. — Del suo caro Goldoni? Credete voi dunque, che io sia il caro della signorina? — Un poco lo siete, e lo sarete di più. — Quando avrò regalate le gioie? — Sì certamente. — Su via, la vostra padroncina le avrà. — Tanto meglio. — Teresa, buon giorno. — Addio, signore... datemi un abbraccio. — (Che il diavolo ti porti).

Vado a casa d’un orefice di mia conoscenza, e gliene do’ la commissione; la riceve, e in capo a quattro giorni giunge la cassetta. Che superbo finimento! costava però dieci zecchini senza il porto, e senza le spese della commissione. Vedo Teresa, le fo cenno; viene, prende la cassetta, e la porta seco; il giorno appresso, che era domenica, vado in chiesa, e mi si presenta subito all’occhio la signorina C*** guarnita delle mie gioie, che imitavano per eccellenza i rubini e gli smeraldi.

Ero contento come un re: ma intanto la signorina non mi aveva fatto l’occhio pio come avrei desiderato, non mi aveva dato alcun segno di soddisfazione, e gli abboccamenti notturni erano stati sospesi da qualche giorno a motivo di alcune ciarle del vicinato. Teresa non mancò di venire a trovarmi, e dirmi le più belle cose del mondo da parte della sua padrona; e siccome le feci comprendere che dovevo esigere qualche cosa di più, m’invitò ad essere a Chiavris il giovedì seguente in casa dell’indicata lavandaia, dove si riservava la signorina di darmi prove del suo affetto, e della sua riconoscenza. Bene, benissimo! a giovedì.

Il tempo mi sembrava molto lungo, e vi ruminavo giorno e notte. Qual prova di affetto dovevo io mai aspettarmi? Di vent’anni non mancava temerità. In somma viene il giorno, mi porto alla casa della lavandaia, e vi arrivo il primo. In capo ad una mezz’ora vedo Teresa, e la scorgo sola; fremo di sdegno, e la ricevo malissimo. Ella mi prega di pormi in calma, e mi fa salire in una soffitta, ove non vi era che un letto molto sudicio, ed una sedia di paglia strap[p. 47 modifica]pata: la sollecito a parlarmi... a dirmi... ed ella mi prega di nuovo di calmarmi, e di ascoltarla, — Ahimè! mio caro amico, ella disse, sono disgustatissima della mia padrona; dopo le attenzioni che voi avete avuto per essa, dopo avermi promesso, manca di parola, trova pretesti per non venir meco. — Come! io dissi interrompendola, ella trova pretesti? nè ci verrà? Si burla forse di me? — Uditemi sino al termine, riprese la furba; ne sono offesa quanto voi, e più di voi, poichè la figura che ella mi fa, è per me di tal conseguenza, che mi mette in desolazione. — Poneva nel suo discorso un calore ed una veemenza sì straordinaria, che la credei veramente penetrata di zelo per me, e procurava io stesso di calmarla. Cambiò realmente tono, e prendendo un’aria tenera e patetica, continuò dicendomi: — Udite, io voglio porvi davanti agli occhi tutti i tratti di perfidia di questo piccolo mostro, che ci ha ingannati. Sapeva l’ingrata, sì sapeva, che io aveva dell’inclinazione per voi. Mi rimproverò da principio una passione, che avevo nutrita in cuore, obbligandomi a sacrificare per lei le mie brame e le mie speranze, e m’incaricò di adoprarmi presso di voi in suo favore. Il mio stato, la mia docilità, il mio carattere m’impegnarono; feci degli sforzi, che mi sono costati sospiri e lacrime; e preparata come già ero di vedervi felice a mie spese, m’inganna, mi dichiara la sua indifferenza per voi e mi ordina di non parlarlene. — Gridai allora preso da collera: E le mie gioie? — Teresa grida ancor più di me: — Le tien chiuse. — Confesso schiettamente, che i dieci zecchini che avevo spesi, davano molto impulso al mio risentimento, non meno che le notti che avevo passate, le speranze che avevo concepite ed il rossore di vedermi ingannato. Ero sul punto di dar nelle furie; ma la saggia e prudente Teresa mi prende per la mano e volgendo verso di me i suoi languidi sguardi: — Mio caro amico, mi disse, siamo stati entrambi ingannati: bisogna vendicarsi, e rendere all’ingrata il disprezzo di cui ella è meritevole: io son pronta a lasciarla in questo punto, e per poco che vogliate fare per me, io non avrò mai altra ambizione, che di nutrire per voi il più parziale affetto. — Tutto questo discorso mi sbalordì; non me l’aspettavo, ma cominciai ad aprire gli occhi. — Voi dunque mi amate, cara zitella mia; tranquillamente le dissi. — Sì, ella rispose abbracciandomi; io vi amo con tutto il cuore e son pronta a darvene le prove più convincenti. — Vi sono molto grato, io risposi; datemi dunque tempo di riflettere, e saprete speditamente la mia maniera di pensare. Dopo un secondo abbraccio ci lasciammo, prendendo ognuno diversa istrada.

Arrivato in città, vado subito in casa d’una crestaia che conoscevo, e ch’era quella della signorina C***. Mi ero imbattuto in qualche luogo di divertimento con quella giovine, avevo scherzato seco sul proposito della sua avventora, e mi pareva propriamente adatta a ciò che ne volevo fare: feci ad essa il racconto della mia storia dal principio alla fine, la pregai di sciogliere il nodo e le promisi uno zecchino se arrivava a scoprirmi la verità. Prese con piacere l’impegno, e vi riuscì a maraviglia, talchè dopo tre giorni mi pose al fatto di tutto con la maggior chiarezza e col miglior garbo che si potesse da me desiderare. Fatto questo, vidi Teresa, le diedi l’appuntamento in casa della lavandaia, vi andai di buon’ora, per arrivarvi il primo: condussi in una specie di cabriolet tre persone meco, e le nascosi dietro un canto dello stanzone, ove si facevano i bucati. Avevo concertato il mio affare con la padrona della casa, ed ero sicuro del fatto. Ecco che giunge Teresa, ed eccola di me contenta. Voleva salire: — No, no, le dissi, andiamo sotto il pergolato, [p. 48 modifica] respireremo miglior aria. — Ivi assisi sull’erba, essa vuole incominciare a parlarmi della sua padrona, e prorompere in nuove invettive. Io le tronco la parola; e con tono serio ed imponente: Non si tratta più, io le dissi, della signorina C***, ora non si tratta che di Teresa, ch’è un’indegna, e che mi ha ingannato. — A queste parole sembra sbalordita, e si sforza di piangere: le rammemoro alcuni tratti della sua malignità, ella nega tutto, e vanta la sua innocenza. Fo allora escire le tre persone che avevo nascoste: Teresa nel veder la crestaia, cessa di fare smorfie, e prende l’aria di sfacciataggine, dicendo ad alta voce: — Ah civetta, tu mi hai tradita! — Quindi indirizzando a me il suo discorso: — Sì, signore, ella mi disse arditamente, io vi ho ingannato, non ve lo nascondo. — A tali parole comincia ciascuno a ridere, ed io fremevo di rabbia. — Aspetta, scellerata, le dico allora, qui voglio fare il tuo processo verbale. — Chi scrisse la prima lettera che tu mi consegnasti? — Essa risponde ridendo: Io. — A chi parlai in istrada per più notti? — A me. — E lo scroscio di risa? — Veniva da me. — Fosti tu che chiudesti la finestra? — No; fu la mia padrona che si burlava di voi. — Tua padrona d’accordo teco? — Sì, poichè vi credea mio amante. — Io tuo amante! — Non ero forse conveniente per voi? — Sfacciata! E le mie gioie? — Le gode la mia padrona. — Come? — Essa le ha pagate. — A chi? — A me! — Ah ladra! — Avevo voglia di romperle la faccia: mi assistè la prudenza. Pago di averle tolta la maschera, mi rivolgo ai testimoni della sua indegnità, e dico ad essi: — Io l’abbandono a voi: sia ricolmata di rossore e di disprezzo: la sua padrona sarà informata del procedere di lei. Compita così la mia vendetta, parto soddisfatto.