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capitolo xvi 45


nè maggiore eleganza, nè maggiore industria. Vi sono alcuni, che dicono, bisogna elevarsi; il pubblico merita rispetto: io credo di rispettarlo benissimo tutte le volte che presento ad esso la verità nuda e senza orpello. Non conoscevo che di nome i genitori della signorina; la vedevo alla finestra, la seguitavo alla chiesa ed al passeggio modestissimamente, nè mancavo di darle qualche segno della mia inclinazione. Non so se ella se ne accorgesse, ma la sua cameriera non tardò molto a scoprirmi. Un giorno questa maligna venne a trovarmi: mi parlò molto di sè stessa e della sua padrona, e mi assicurò che io potevo contare e sull’una e sull’altra. Domandai se potevo arrischiarmi a scrivere... — Sì, mi disse, senza lasciarmi finire, scrivete pure alla mia padroncina; prendo l’impegno io di dare alla medesima la vostra lettera, e di portarvi la risposta. — Veramente volevo scriver nell’atto, e la pregai di aspettare. — Ma no, mi disse, vado alla santa Messa, non la lascio mai, ci vado ogni giorno, ma tornerò nell’escire di chiesa. — Ella parte, ed io scrivo la mia lettera, nella quale dopo i complimenti d’etichetta, e le solite espressioni di tenerezza, chiedo a madamina un rendez-vous nelle regole. Ritorna Teresa (questo era il nome della cameriera), prende la lettera, e nell’atto di partire mi presenta la guancia. Non vi è l’uso in Italia di baciare le donne così innocentemente come in Francia, e poi era brutta da far paura; ricusai dunque sin che potei, ma mi saltò al collo, e bisognò ad ogni costo baciarla. Due giorni dopo incontrandomi Teresa per strada, mi porse con destrezza un foglio, che misi subito in tasca. Era una lettera della signorina C*** in replica alla mia; la trovai però sì male scritta, che stentai molto a raccapezzarvi qualche cosa. Rilevai a un dipresso, che non poteva ricevermi in casa senza il consenso dei suoi genitori, e che se volevo parlare dalla strada di notte, sarebbe stata qualche quarto d’ora alla finestra per sentirmi. In Italia è uso antico fare all’amore al sereno; bisognava uniformarmi. L’istesso giorno capitatovi a un’ora avanti l’alba vidi aprirsi l’imposta della finestra, e vidi comparire una testa in cuffia da notte; parlavo a questa testa, e questa testa mi rispondeva; di tanto in tanto io diceva dell’espressioni affettuose, e mi si rispondeva sull’istesso tono. Incoraggito dalla facilità che credevo scorgervi, vado un passo più avanti, quando tutto in un tratto sento uno scroscio di risa, e vedo chiudersi la finestra. Non intendevo che affare fosse questo; me ne torno a casa soddisfatto da una parte, malcontento dall’altra. Conviene aspettar Teresa. La vedo il giorno dopo, mentre mio padre era in casa. Scendo, raggiungo la devota sulla piazza della cattedrale, e la interrogo sopra la risata della notte scorsa. — Voi avete dette, ella rispose, graziosissime lepidezze; la mia padrona ci ha riso, poichè non è bigotta, ma risovvenendosi della sua verecondia, ha chiuso la finestra. Seguitate, seguitate, ella soggiunse, e non temete. — Aveva qualche altra cosa da dirle; ma orsù, ella riprese, è tardi, non voglio perder la Messa.

Vedevo bene, che la Messa andava mal d’accordo col mestiere di mezzana, e costei non poteva essere che una civetta, com’era di fatto in tutto il rigor del termine. Ma, essendo io innamorato, credei di dovermela seco passar bene, e continuai per qualche tempo le mie conversazioni notturne; ma non più alla medesima finestra ove compariva la testa in cuffia da notte, bensì ad un’altra molto distante. Ne chiesi la ragione. La signorina temeva la vicinanza della signora madre, ed ero perciò più riservato nei miei discorsi: ma mi si lanciava di tempo in tempo qualche espressione un poco