Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XVII
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CAPITOLO XVII.
- Mio viaggio a Gorizia e a Wippak. — Piacevole divertimento campestre. — Corsa in Germania.
Non vidi più l’iniqua strega. Seppi bensì dalla crestaia ch’era stata licenziata dalla casa in cui era, e si credeva fosse partita dalla città. Per riparare al tempo perduto, feci conoscenza con una figlia di un acquacedrataio, con la quale incontrai assai meno difficoltà ma molto più pericolo. Toccai di volo questo secondo aneddoto friulese nella mia edizione del Pasquali, ed ho però creduto di doverne parlare, affinchè non si pensi, che io abbia fatti racconti a capriccio. Ma siccome il caso non merita troppo di occupare i miei lettori, passerò sotto silenzio ogni particolarità estranea, e dirò solamente, che corsi i più gran rischi, che mi si voleva ingannare in una maniera molto più seria, e che ritornando in me stesso me ne sbrogliai ben presto per andare ad unirmi con mio padre. Era alloggiato a Gorizia in casa dell’illustre suo malato, il conte Lantieri, luogotenente generale degli eserciti dell’Imperator Carlo VI, ed inspettore delle truppe austriache nella Carniola e nel Friuli tedesco. Fui benissimo accolto da quell’amabile signore, che era la delizia del suo paese. A Gorizia non facemmo lunga permanenza, ma passammo di lì a poco a Wippak, borgo considerabilissimo nella Carniola, alla sorgente di un fiume da cui prende il nome, feudo della casa Lantieri. Vi passammo quattro mesi col maggior diletto del mondo. In quel paese i signori si fanno visita in famiglia; genitori, figli, maestri, persone di servizio, cavalli, tutto si mette in moto in una volta, e tutti son ricevuti, ed han quartiere. Si vedono spesso trenta padroni in un medesimo castello ora in casa di alcuni, ora in casa d’altri; il conte Lantieri, però che era considerato per malato, non andava in alcun luogo, e riceveva tutti.
La sua tavola non era delicata, ma copiosissima. Mi ricordo ancora del piatto di arrosto, che era il piatto dell’etichetta: un quarto di montone o di capriolo, o un petto di vitella ne faceva la base: vi eran sopra lepri o fagiani con un ammasso di starne, pernici, poi beccaccini, e tordi e terminava la piramide con allodole e beccafichi. Questo bizzarro insieme era subito distribuito: appena giunto, andavano in giro gli uccelletti: ora questi, ora quelli tiravano a sè la selvaggina per tagliarla, e i dilettanti di carne ne vedevano allo scoperto quei grossi pezzi, che vie più aguzzavano il loro appetito.
Era pure d’etichetta il portare tre minestre in ogni pranzo: una zuppa con contorni, altra zuppa d’erbe nella prima portata, ed orzo mondo tra i piatti di mezzo; e si condiva quest’orzo col sugo dell’arrosto, e mi si diceva, che ciò conferiva molto alla digestione.
I vini erano eccellenti; vi era un certo vino rosso, che si chiamava fa-figliuoli, e che dava motivo a graziosissime lepidezze. Quello che m’infastidiva un poco, erano i brindisi che bisognava indirizzare ogni momento. Il giorno di san Carlo, il primo fu per sua Maestà Imperiale, e furono presentati a ciascuno dei commensali in tale occasione certi vasi da bere di una specie del tutto singolare. Era questa una macchina di vetro dell’altezza di un piede, composta di diverse palle che andavano degradando, e ch’erano separate da tubi; terminava in un’apertura bislunga che si presentava comodissimamente alla bocca, e dalla quale si faceva escire il liquore.
Si empiva il fondo di questa macchina, che si chiamava glo glo, avvicinandone poi la sommità alle labbra, e tenendo elevato il gomito, il vino, che passava per i tubi e per le palle, veniva a formare un suono armonioso onde tutti i commensali, facendo l’istesso in un tempo medesimo, mettevano insieme un accordo del tutto nuovo e piacevolissimo. Io non so se in quel paese persistano ancora tali usanze: tutto varia, ed ivi pure potrebbe essere variato costume; ma se vi fossero in quei paesi persone del tempo antico come me, avranno forse caro che io ne abbia risvegliato in loro la rimembranza.
Il conte Lantieri era contentissimo di mio padre, poichè andava molto migliorando, ed era prossimo alla guarigione. Aveva inoltre dei riguardi per me, e per procurarmi sollievo, fece mettere in ordine un teatro di marionette ch’era quasi in abbandono, ma molto ben corredato di figure e di decorazioni.
Io ne profittai, e tenni divertita la compagnia, dando una rappresentazione di un grand’uomo, fatta espressamente per i comici di legno; questa era lo Starnuto di Ercole di Pier Giacomo Martelli bolognese.
Quest’uomo celebre era il solo che avrebbe potuto lasciarci un teatro completo, se non avesse avuta la follìa d’immaginare certi versi di un nuovo genere per gl’Italiani, cioè versi di quattordici sillabe, rimati due per due come i versi francesi a un dipresso. Parlerò dei versi martelliani nella seconda parte di queste Memorie, poichè, a dispetto della loro proscrizione, io mi son preso il diletto di farli trovar buoni cinquant’anni dopo la morte del loro autore. Martelli aveva dato in sei volumi composizioni drammatiche di ogni genere possibile, cominciando dalla tragedia più grave fino alla farsa dei burattini, da lui detta Bambocciata, il cui titolo era lo Starnuto di Ercole. L’autore col brio della sua immaginazione inviava Ercole nel paese dei Pigmei: questi piccinini sbigottiti alla vista di una montagna animata, che aveva gambe e braccia, si nascondevano nei loro buchi. Un giorno, in cui Ercole, sdraiato all’aperta campagna, dormiva tranquillamente, i timidi abitanti escirono dai loro ricoveri; armati di spine e di giunchi salirono sopra l’uomo mostruoso, e lo coprirono da capo a piedi, come farebbero le mosche assediando un pezzo di carne putrefatta. Si sveglia Ercole; sente roba nel naso, starnuta: i suoi nemici cascano per ogni banda, ed ecco terminata la rappresentazione. Vi si trova disegno, condotta, intreccio, catastrofe, accidenti: lo stile è buono, e ben mantenuto: i pensieri, i Sentimenti, tutto è proporzionato alla corporatura dei personaggi: i versi pure sono corti; tutto annunzia Pigmei. Bisognò fare un burattino gigantesco per il personaggio d’Ercole: in somma tutto ebbe buono effetto, ed il divertimento riuscì molto piacevole; scommetterei essere io stato il solo che abbia immaginato di eseguire la bambocciata del signor Martelli.
Terminate le nostre rappresentazioni, e la cura del conte Lantieri andando sempre di bene in meglio, mio padre cominciò a discorrere di ritornarsene a casa. Mi si propose nel tempo istesso di fare un giro col segretario del conte che era incaricato di commissioni del suo padrone. Mio padre mi accordò quindici giorni di assenza, e si partì per la posta in un calessino a quattro ruote. Arrivammo di primo lancio a Leiback, capitale della Carniola, sopra un fiume dell’istesso nome. Non vidi altro di straordinario, che certi gamberi di una bellezza maravigliosa, e grandi quanto le aliuste, essendovene alcuni della lunghezza di un piede. Di là passammo a Gratz, capitale della Stiria, ove trovasi un’antichissima e celeberrima università di maggior concorso che quella di Pavia, essendo i Tedeschi molto più studiosi e meno dissipati degl’Italiani. Avrei volontieri gradito di poter spingere il mio viaggio fino a Praga, ma il mio compagno di viaggio ed io eravamo affrettati, egli dagli ordini del suo padrone, ed io da quegli di mio padre. Tutto quel che potemmo fare fu di non ritornare per la medesima strada; traversammo la Carintia, vedemmo Trieste, considerabile porto di mare sull’Adriatico; di là passammo per Aquileia e per Gradisca, e ci restituimmo a Wippak due giorni più tardi di quel che ci era stato prescritto.
Subito che ritornai, mio padre prese congedo dal conte Lantieri, che gli regalò una rispettabile somma di danaro in ricompensa delle sue cure, unendovi una bellissima scatola col suo ritratto, ed un orologio di argento per me. Un giovine della mia età doveva essere molto contento, potendo avere un orologio d’argento! In oggi sdegnano di portarlo i lacchè. Nel prender la posta a Gorizia, pregai mio padre di preferire il cammino di Palma-Nuova, che non avevo veduta, ma in sostanza ciò facevo per non passar da Udine, ove l’ultimo fatto mi faceva temere qualche dispiacevole incontro: vi acconsentì di buona voglia, e vi arrivammo all’ora del primo pranzo.
Palma, o Palma-Nuova, è una delle più fortificate e più considerevoli città di Europa: appartiene ai Veneziani, ed è il baluardo meglio difeso per i loro Stati dalla parte della Germania. Le fortificazioni sono così bene disposte e così bene eseguite, che i forestieri vanno a vederle per curiosità, come un capo d’opera di architettura militare.
La Repubblica di Venezia manda a Palma un provveditor generale per governarla. Questi presiede al civile, al criminale ed al militare, e rende conto al Senato di tutto quello che può importare al governo. Andammo a far visita al provveditor generale, che mio padre aveva conosciuto a Venezia. Questo degno senatore ci ricevè con molta bontà: aveva veduto la mia quadragesima poetica, e mi fece le sue congratulazioni; ma, guardandomi con un amaro sogghigno, mi disse, che le prediche del padre Cataneo, da quello che appariva, mi avevano poco santificato, facendomi comprendere che egli era al fatto delle mie ultime imprudenze; nè questo era molto difficile, a motivo della vicinanza dei luoghi. Ne ebbi rossore, e mio padre che se ne accorse, me ne chiese dopo ragione. Risposi che non avevo capito nulla, ed egli non insistè più su tal proposito: restammo a cena in casa di sua eccellenza, e di lì partimmo il giorno appresso. Avvicinandoci al Tagliamento, che dovevamo ripassare, ci fu detto che questo torrente era furiosamente straripato, e che non era possibile traversarlo. Siccome non eravamo troppo lontani da Udine, mio padre pensò di andare ad aspettare tranquillamente in questa città, che le acque del torrente ritornate fossero al naturale loro stato. Udine mi faceva spavento, e vi trovavo mille difficoltà. Mio padre insisteva, ed io adduce va sempre nuove ragioni. Egli s’impazientiva; smontammo in un’osteria e vi si fece una refezione a guisa di pranzo; quivi combinando mio padre i discorsi del generale di Palma con quelli che io faceva per non ripassar per Udine, mi strinse a tal segno, che mi trovai obbligato a manifestargli più modestamente che io potei tutto ciò che mi era accaduto. Si divertì dell’avventura di Teresa, mi consigliò a ricavarne profitto per diffidare del carattere delle donne sospette; ma circa il caso dell’acquacedrataia, parlandomi più da amico che da padre, mi fece rilevare i miei errori, e mi fece piangere. Finalmente fummo per buona sorte avvisati che il Tagliamento era in istato di potersi guadare, onde fu da noi ripreso il viaggio che avevamo interrotto.