Memorie del presbiterio/IX
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IX.
Giunti alla sala da pranzo, trovammo la tavola imbandita. Il curato mi fe’ sedere alla sua destra; uno dei due preti che avevo intraveduto alla messa fu invitato a porsi dall’altra parte, e gli altri presero posto come vollero.
Eravamo otto commensali. Il farmacista fu l’ultimo a venirsi a sedere al mio fianco; e ancora, fra un boccone e l’altro, scappava via a dare una occhiatinina (egli aveva il gusto dei diminutivi) ai fornelli. A volte, era egli stesso che compariva dalla cucina con un piatto fumante che poneva davanti al secondo prete, il quale stava a capo della tavola dirimpetto al curato. In tal caso si trattava di qualche intingolo manipolato dalle sue mani e ch’egli assaggiava cogli occhi commossi, prima che colla bocca.
— A lei, Don Gaudenzio; mi tagli un po’ di cotesto, ma, per carità, non dilanii, tagli.
E, ciò detto, veniva al suo posto coll’aria di uno che, fatto il proprio dovere, lascia altrui la intiera responsabilità delle conseguenze.
Don Gaudenzio pareva creato da Dominiddio apposta per coprire l’ufficio a cui era stato scelto alla tavola del presbiterio. Certo erano costrutti così gli schiavi incaricati di squarciare gli agnelli nei banchetti omerici. Egli si tirava d’impiccio con una rapidità prodigiosa. Le sue braccia colossali passavano, coprendolo agli occhi altrui, due o tre volte sul piatto, poi deponeva coltello e forchetta, e la vittima si trovava pronta a far il giro della tavola.
Quando il piatto arrivava davanti all’organista, l’avresti detto un convoglio che, fatte brevissime soste alle stazioni secondarie, è finalmente arrivato a uno scalo di grande importanza, e perciò vi si ferma un bel pezzo, vogliano o non vogliano i viaggiatori. Era ingordigia raffinata e soverchia da parte del musicista? Oh, no certo; ma bensì deplorabile effetto della sua eccezionale struttura. Ei non poteva guardar da vicino al dissotto di sè stesso; il volume del collo ne lo impediva; la sua piccola testa era inchiodata su quell’enorme piedestallo nella direzione degli astri e dello specchietto dell’organo, ed era con grandissimo stento e ancora allontanando il piatto verso il centro del tavolo, che il povero uomo riusciva a vederne il contenuto e a prenderne la propria parte. Una volta la sosta di un pollo arrosto fu così lunga, che il prete che sedeva in faccia a me fra il curato e l’organista nell’imbarazzo, perdette la pazienza, e, riscaldato probabilmente dal profumo della imbandigione che tanto tardava a cadere nelle sue mani, esclamò:
— Signor Prosdocimo, in nome di Dio! ci vuol tanto tempo per decidersi fra un polpastrello ed una ala? Ci sono tanti che aspettano!...
Il Bazzetta venne allora in aiuto dell’infelice organista, cui le parole del sacerdote impaziente avevano dato il tremito. D’un balzo gli fu alle spalle, e, guidatagli la mano, gli infilzava sulla forchetta il boccone migliore. Il pretaccio, che forse lo aveva da gran tempo adocchiato e sperava infilzarlo sulla propria, si morse le labbra e, preso il piatto, lo girò al curato, senza servirsene, dicendo dispettosamente:
— Non è mica ch’io abbia parlato per me...
— Oh! osservò don Luigi, chi mai potrebbe pensarlo?
E mi diè un’occhiata di una furberia che, su quei lineamenti fatti per la serenità e la dolcezza, era proprio impagabile.
I discorsi, durante il pranzo, furono molti e svariati; io, come nuovo arrivato e come cittadino, ne dovetti naturalmente far le spese maggiori. Le domande fioccavano, nè a tutto potevo rispondere.
Don Gaudenzio era stato in seminario con un tale abatino pieno di talento e a cui i superiori preconizzavano una carriera delle più luminose. Egli voleva sapere da me che cosa ne fosse avvenuto.
— Don Ambrogio Marzocchi? Non lo ho mai sentito nominare.
— Pare impossibile! Un giovine di tanto talento. Eppure, scusatemi...
— S’immagini...
— Scommetto che adesso è almeno almeno canonico del duomo.
— Sarà benissimo.
Don Gaudenzio non mi guardò più che con aria di suprema compassione.
E fui subito dall’organista che con una voce da donnicciuola malata mi chiedeva se i cori della cattedrale milanese fossero composti di maschi o di femmine.
— Maschi, signor Prosdocimo.
— Pare impossibile: li ho sentiti una volta sola, da ragazzo, all’epoca dell’ingresso dell’arcivescovo Romilli, e avrei giurato....
— Ci sono uomini che hanno la voce dell’altro sesso; rari sì, ma ci sono... mormorò il farmacista.
E ghignava sotto i baffetti.
Due commensali non apersero bocca.
L’uno era don Sebastiano, il vice-curato, l’ombra di quel quadro luminoso di giocondità, un certo coso incoloro, insipido, insignificante (ed altre negative in in), del quale per dare un’idea giusta bisognerebbe poterlo descrivere senza dirne nulla.
L’altro, un giovane abatino, pallido, dagli occhi azzurri, dalla ciera linfatica e sofferente, dai modi timidi e muliebri. Lo splendore vago e malinconico del suo sguardo parea cercasse qualche cosa che non era presente, una memoria lontana, una speranza indefinita. Mangiò pochissimo e non bevette che acqua, ciò che non fece, per esempio, Don Gaudenzio.
Si era appena finito, e i commensali stavano ancora ripiegando i tovaglioli, quando Baccio entrò con una faccia sepolcrale, ed annunzio l’arrivo del sindaco.
Il curato ebbe un movimento di tutta la persona, e un rapido sguardo in alto, che mi colpirono. Poi, puntellandosi ai bracciuoli della poltrona disse, alzandosi lentamente:
— Vengo; fatelo passare nel gabinetto.
Un silenzio successe alla partenza del curato; l’imbarazzo generale era evidente.
Bazzetta, la testa all’aria, maneggiava con fare sbadato, uno stuzzicadenti; don Anastasio, il prete che aveva fatto allibire il povero Prosdocimo, s’era alzato, e, piano piano, come uno che cerca di sviare da sè l’attenzione, era andato a collocarsi presso la porta da cui era uscito don Luigi e origliava. Solo don Gaudenzio, disteso ancora tranquillamente davanti agli avanzi della lauta imbandizione, pareva non essersi accorto nemmeno della sparizione del curato; e dondolandosi il mento, prelibava il sonno della digestione.
Io uscii nel giardino sperando che mi sarebbe dato di vedere che cosa succedeva. Ma fui deluso: tutti gli sportelli delle finestre erano chiusi; e non si udiva che il burrichìo degli insetti che svolazzavano tra le rose, mentre dalla cucina veniva il suono chioccio dei piatti uscenti dal ranno.
L’abatino, che era sempre stato silenzioso durante il pranzo, mi seguì fuori dalla stanza, ed entrò in un viale ombroso che correa parallelo a quello in cui mi ero posto; e vedevo tra il fogliame la sua faccia diafana e i suoi occhioni profondi che mi fissavano con una curiosità fatta di meraviglia e di rispetto nel tempo stesso.
Certo, a quell’umile esistenza incantucciata fra le umili pareti di un presbiterio solitario e ignorato, destinato a crescervi ed a morirvi nell’ombra e nella dimenticanza; a quella debole creatura pensierosa e malaticcia a cui nessuno guardava, a cui nessuno parlava; che era lì come un arnese della parrocchia, inconscio di sè e degli altri, doveva essere oggetto di meraviglia l’aspetto di un giovane della stessa sua età, fiorente, robusto, pieno di vita, libero come l’aria, che era giunto da lontano, dalle città portentose, che parlava nuove e edificanti parole d’arte e di progresso, e che il curato, il venerando signor curato aveva accolto e trattava da pari a pari. È propria delle nature deboli la facilità di ammirare, e, per talune dì rimpicciolirsi, il sentirsi di polvere davanti ad altre che siano o sembrino più elette e più forti, diventa per loro una compiacenza, quasi una voluttà profonda ed indefinibile.
Di tal tempra pareva il mingherlino giovinetto che mi seguiva, coprendomi di sguardi penetranti e modesti. Mi nacque simpatia per lui, e, nell’ansietà in cui ero per quanto accadeva in quel momento nel gabinetto, pensai che facendomi amico quel piccolo ammiratore, oltre che obbedire alla incipiente simpatia, sarei forse anche riuscito a trargli di bocca qualche rivelazione intorno il mistero.
Giunto a un risvolto del viale, mi indirizzai quindi a lui, che parve tremar sulle gambe, vedendomi giungere.
— Siete nativo del villaggio? gli chiesi.
Egli arrossì fin nel bianco degli occhi, chinò il capo, intrecciò le mani, si pose a girare le dita come se numerasse le grane del rosario, e, finalmente, con una vocina velata:
— Sissignore, rispose.
— E vivete qui, col curato?
— Nossignore, in casa del signor Sindaco.
— Ah! siete suo parente?
— Parente... no, ma è lui che mi mantiene agli studii.
Ripresi a passeggiare; egli mi seguì, ma restandomi indietro un pochino.
— E la vostra famiglia, ove abita?
— Non ho più che mia zia, la sora Mansueta; rispose tristamente il chierico; sono figlio di una sua sorella, che è morta.
— E il babbo?
— Non l’ho mai conosciuto; non so chi sia stato.
— Conoscete almeno il suo nome?
— Nossignore.
— Ma voi come vi chiamate? Dissi, fissandogli gli occhi nel viso.
— Col nome di mia madre, rispose il poveretto, chinando gli occhi nel pronunciare quelle parole, e, rialzandoli tosto, quasi a cercarmi silenziosamente la spiegazione di un enigma.
In questo punto, mentre le foglie stornivano e i passeri battevano dell’ali al disopra della vite la voce terribile del sindaco squarciò l’aria tiepida e tranquilla, come lo scroscio di un torrente che d’improvviso fosse sgorgato dal monte. Il mio interlocutore impallidì ed io sentii di fare altrettanto.
— Ah! possedete dei documenti? Me ne infischio dei vostri documenti; i miei valgono meglio. E, corpo di mille Satanassi, se non varranno quelli, ho altre cose nel sacco.
Le parole che, a giudicarne dalle interruzioni del sindaco, venivano intercalate dalla sua vittima, non giungevano fino a noi.
— Sì, altre cose nel sacco, e di belle e di buone, signor prete: è passato quel tempo che mi mettevate paura e ne approfittavate per rovinare il mio avvenire. È passato, ma me ne ricordo; e il coltello pel manico adesso l’ho io.... Quando penso che mi avete fatto ubbidire come un agnellino, e che ne porto ancora le conseguenze.... con quell’ombra di pretucolo che mi avete accollato... Ma... ciò che è segreto per me non lo è per gli altri, e corpo di... Tacerò se userete le buone, altrimenti!...
Vi fu un silenzio di qualche minuto, dopo questa oscura minaccia. Dopo non udii che un siamo intesi, ma così irto di ferocia che mi rimescolò le viscere.
Il terribile uomo comparve sotto la vite, dirigendosi al sentiero ove stavo io coll’abatino.
Al vederlo, quest’ultimo parve voler sprofondare sotto la terra.
— Animale! gli gridò il sindaco, venendogli incontro; che fai qui a discorrere colle persone che non conosci! Dio ti maledica, cretino da galera; avanti, a casa, o buschi il resto di quelle che ti ho date ieri; avanti, a casa, a lavorare!
E, afferratolo pel collare, lo sollevò dal suolo, e lo piantò a due passi di distanza.
E l’infelice, col capo nelle mani, lo precedette, ed uscì dalla porticina tutta inghirlandata di glicine e di verbene.