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IX.


Giunti alla sala da pranzo, trovammo la tavola imbandita. Il curato mi fe’ sedere alla sua destra; uno dei due preti che avevo intraveduto alla messa fu invitato a porsi dall’altra parte, e gli altri presero posto come vollero.

Eravamo otto commensali. Il farmacista fu l’ultimo a venirsi a sedere al mio fianco; e ancora, fra un boccone e l’altro, scappava via a dare una occhiatinina (egli aveva il gusto dei diminutivi) ai fornelli. A volte, era egli stesso che compariva dalla cucina con un piatto fumante che poneva davanti al secondo prete, il quale stava a capo della tavola dirimpetto al curato. In tal caso si trattava di qualche intingolo manipolato dalle sue mani e ch’egli assaggiava cogli occhi commossi, prima che colla bocca.

— A lei, Don Gaudenzio; mi tagli un po’ di cotesto, ma, per carità, non dilanii, tagli.

E, ciò detto, veniva al suo posto coll’aria di uno che, fatto il proprio dovere, lascia altrui la intiera responsabilità delle conseguenze.

Don Gaudenzio pareva creato da Dominiddio apposta per coprire l’ufficio a cui era stato scelto alla tavola del presbiterio. Certo erano costrutti così gli schiavi incaricati di squarciare gli agnelli nei banchetti omerici. Egli si tirava d’impiccio con una rapidità prodigiosa. Le sue braccia colossali passavano, coprendolo agli occhi altrui, due o tre volte sul piatto, poi deponeva coltello e forchetta, e la vittima si trovava pronta a far il giro della tavola.