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sietà in cui ero per quanto accadeva in quel momento nel gabinetto, pensai che facendomi amico quel piccolo ammiratore, oltre che obbedire alla incipiente simpatia, sarei forse anche riuscito a trargli di bocca qualche rivelazione intorno il mistero.

Giunto a un risvolto del viale, mi indirizzai quindi a lui, che parve tremar sulle gambe, vedendomi giungere.

— Siete nativo del villaggio? gli chiesi.

Egli arrossì fin nel bianco degli occhi, chinò il capo, intrecciò le mani, si pose a girare le dita come se numerasse le grane del rosario, e, finalmente, con una vocina velata:

— Sissignore, rispose.

— E vivete qui, col curato?

— Nossignore, in casa del signor Sindaco.

— Ah! siete suo parente?

— Parente... no, ma è lui che mi mantiene agli studii.

Ripresi a passeggiare; egli mi seguì, ma restandomi indietro un pochino.

— E la vostra famiglia, ove abita?

— Non ho più che mia zia, la sora Mansueta; rispose tristamente il chierico; sono figlio di una sua sorella, che è morta.

— E il babbo?

— Non l’ho mai conosciuto; non so chi sia stato.

— Conoscete almeno il suo nome?

— Nossignore.

— Ma voi come vi chiamate? Dissi, fissandogli gli occhi nel viso.

— Col nome di mia madre, rispose il poveretto, chinando gli occhi nel pronunciare quelle parole, e,