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Due commensali non apersero bocca.
L’uno era don Sebastiano, il vice-curato, l’ombra di quel quadro luminoso di giocondità, un certo coso incoloro, insipido, insignificante (ed altre negative in in), del quale per dare un’idea giusta bisognerebbe poterlo descrivere senza dirne nulla.
L’altro, un giovane abatino, pallido, dagli occhi azzurri, dalla ciera linfatica e sofferente, dai modi timidi e muliebri. Lo splendore vago e malinconico del suo sguardo parea cercasse qualche cosa che non era presente, una memoria lontana, una speranza indefinita. Mangiò pochissimo e non bevette che acqua, ciò che non fece, per esempio, Don Gaudenzio.
Si era appena finito, e i commensali stavano ancora ripiegando i tovaglioli, quando Baccio entrò con una faccia sepolcrale, ed annunzio l’arrivo del sindaco.
Il curato ebbe un movimento di tutta la persona, e un rapido sguardo in alto, che mi colpirono. Poi, puntellandosi ai bracciuoli della poltrona disse, alzandosi lentamente:
— Vengo; fatelo passare nel gabinetto.
Un silenzio successe alla partenza del curato; l’imbarazzo generale era evidente.
Bazzetta, la testa all’aria, maneggiava con fare sbadato, uno stuzzicadenti; don Anastasio, il prete che aveva fatto allibire il povero Prosdocimo, s’era alzato, e, piano piano, come uno che cerca di sviare da sè l’attenzione, era andato a collocarsi presso la porta da cui era uscito don Luigi e origliava. Solo don Gaudenzio, disteso ancora tranquillamente davanti agli avanzi della lauta imbandizione, pareva non essersi accorto nemmeno della sparizione del curato; e dondolandosi il mento, prelibava il sonno della digestione.