Melmoth o l'uomo errante/Volume I/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII.
seguito della storia dello spagnuolo.
Io fui ricolmo di ringraziamenti di benedizioni, di abbracciamenti. Li ricevetti con una mano tremante, con le labbra gelate, collo spirito agitato ed il cuore petrificato; vedeva il tutto come un sogno! Ritornando al chiostro sentii, che la mia sorte era fissata, e non aveva alcun desiderio nè di stornarla nè di arrestarla. Andava meco stesso ripetendo incessantemente: bisogna che io sia religioso! ogni discussione qui terminava.
Nel convento mi erano usati i più grandi riguardi. Un figlio, il primogenito del duca di Moncada che pronunziava i suoi voti, era un trionfo per quello stabilimento. Mi fu dimandato quali erano i libri, che avrei desiderato di leggere; risposi: Quelli che più vi piaceranno. Vedevano che io era amante de’ fiori, e la mia camera era riempiuta di vasi di porcellana contenenti i più brillanti prodotti del loro giardino e rinnovati giornalmente. Io era amante di musica, e mi fornirono di un superbo piano-forte. A tutti questi contrassegni d’indulgenza e benevolenza io corrispondeva, però con una ingratitudine ben lontana dal mio carattere. Non leggeva giammai i libri, che mi fornivano, non faceva alcun conto de’ fiori co’ quali ornavano la mia cella, e non poneva mai le mani sul piano-forte.
Il vecchio celibe veniva a trovarmi sovente, ed un giorno che mi pressava a coltivare i miei talenti per la pittura e la musica, io non gli risposi che con la mia apatica monotonia: bisogna che io sia religioso. — Ma l’amor de’ fiori, della musica, di tutto ciò, che può esser consacrato a Dio, è degno ancora dell’attenzione dell’uomo. Voi abusate dell’indulgenza dei vostri confratelli e del superiore specialmente. — Ciò può essere. — Voi per riconoscenza dovete ringraziare Iddio di coteste amabili e leggiadre opere della creazione. (La mia camera in quel momento era piena di rose e di viole.) Dovete ringraziarlo altresì del talento che vi ha accordato di cantare le sue lodi. La vostra voce è la più armonica di tutti gli altri religiosi. — Non ne dubito. Ma voi rispondete così all’azzardo. — Precisamente come sento; ma non ci fate attenzione. — Volete venire a fare una passeggiata nel giardino? — Come vi piace. — Oppure volete andare a cercare qualche consolazione andando a conversare col superiore? — Non saprei cosa dirgli. — Perchè mai dimostrate tanta apatia? L’odore di questi fiori e le consolazioni del superiore vi sono ugualmente indifferenti? — Almeno lo credo. — E perchè? Perchè bisogna che io sia un religioso. — Non sapete proferire altra frase, che questa, la quale vi fa parer simile ad un fanciullo in delirio? — Immaginate pure che io sia alienato di mente; divenuto stupido... tutto ciò, che vi piacerà... poichè voi sapete, che bisogna che io sia religioso.
Intanto nel palazzo de’ Moncada si tenevano delle consulte senza fine, se io fossi in grado di pronunziare i miei voti. Il superiore aveva giudicato di sì, perchè io non aveva a nessuno della comunità esternata la ripugnanza invincibile allo stato religioso, e mi lasciava ciecamente guidare come una vera vittima al sacrifizio. Aveva fin qui adempiuto con regolarità agli esercizii religiosi, nè alcun rimprovero aveva meritato dalla parte del maestro de’ novizii o degli altri superiori. Già era prossimo il termine del mio noviziato, ed il giorno precedente alla mia professione dovetti sopportare una scena alla quale io non era preparato.
Trovai nel parlatorio i miei genitori al fianco de’ quali stava l’autore d’ogni mia disgrazia, lo zio cioè del mio genitore, ed alcune altre persone che io non riconobbi. Mi avanzai con passo fermo e con lo sguardo tranquillo. Il superiore dopo avermi presentato a’ miei genitori mi pregò di far loro vedere alcuni miei disegni, che mi aveva detto di recare; piegando un ginocchio in terra li presentai prima a mia madre e quindi a mio padre: erano essi de’ piccoli abbozzi, che rappresentavano deʼ monasteri e delle prigioni. La mia genitrice rivolse indietro lo sguardo e mio padre rigettandogli disse: Non ho gusto per tali cose.
Ma voi amate senza dubbio la musica, gli disse il superiore; bisogna che lo sentiate suonare. Nella camera vicina al parlatorio vi era un piccolo organo. Mia madre non vi potè essere ammessa, ma il genitore mi seguì per sentirmi suonare. Io scelsi così a caso e senza riflettere un’aria del sagrifizio di Iefte. Il mio genitore ne rimase turbato e commosso, e mi pregò di tralasciare. In tutta quella scena mi condussi nella più ragionevole maniera e l’indomani fu fissato pel giorno della mia professione.
L’indomani! oh! perchè non posso io descrivere co’ suoi veri coloriquella giornata! ma sento, che ciò mi è impossibile. Il profondo stupore in cui io era immerso m’impediva di fare attenzione a delle cose, che avrebbero colpito lo spettatore il più disinteressato. Era io tanto assorto, che quantunque mi ricordi dei fatti, non saprei dare la più piccola idea delle sensazioni che risvegliarono in me. La notte che lo precedeva non gustai sonno nè riposo di alcuna sorta. Comparve alla fine l’aurora; io sapeva ciò che questa mi preparava. Vedeva nella mia immaginazione tutta la scena, che doveva fra poche ore succedere. Ad un tratto però le mie idee cambiarono: sentii in me il più formidabile miscuglio di malignità, di disperazione, di forza. Nel tempo che io stava così riflettendo sembrava che de’ lampi terribili mi uscissero dalle pupille. Io poteva in un istante far cambiare di luogo i sagrificatori e la vittima. Fermandomi con compiacenza in questo pensiero diedi in un prolungato scoppio di risa. Ad un tratto mi veggo comparire il vecchio zio, che mi disse maravigliato: cosa significa tutto ciò! — Nulla, signore, null’altro che un pensiero, che mi è venuto in mente; ed è che se volessi potrei ad un tratto far cambiare di luogo i sagrificatori e la vittima. — Noi discuteremo questo punto in altra occasione; intanto.... — Intanto, lo interruppi con un altro scoppio di risa, che senza dubbio dovette molto turbarlo, intanto io non ho che un’alternativa a proporre: dite al mio genitore o a mio fratello, che venga un di loro a rimpiazzare il mio posto: ecco la mia determinazione; io non voglio essere un religioso.
A tali mie parole pronunziate con fermezza egli si mise a percorrere la stanza con tutta l’apparenza della disperazione. Io lo seguiva proferendo delle ingiurie e delle bestemmie, che dovettero farlo inorridire. Indarno egli mi rappresentò, che già ogni cosa era pronta, che tutta Madrid era riunita per assistere alla mia professione solenne; nè i suoi ragionamenti nè le sue suppliche valsero a rimuoversi. Gli stessi argomenti, che trasse dalla ragione, non servirono che a vieppiù inasprirmi. Lungo fu il nostro colloquio, e quando io ci rifletto non saprei neppure al giorno d’oggi spiegare, come putessi avere la forza di proferire tutti gli orrori che mi usciron di bocca in quella circostanza. A tutte le mie invettive lo scaltro rispondeva con una calma la più grande. Finalmente quando credetti di averlo quasi persuaso in mio favore, egli dopo essere stato in silenzio per un poco di tempo, mi disse: Giovane incauto, voi vi siete rivoltato contro Iddio, avete risistito alle sue chiamate, alla sua decisa volontà; avete profanato il suo santuario. Io in nome suo e mio, vi perdono tutto ciò che avete detto e fatto. Giudicate ora della differenza tra voi e me. Voi insultate, diffamate, accusate; io vi benefico e vi perdono. Ma voglio abbandonare una questione, che presentemente non siete in grado di trattare, e non farò uso con voi che di un altro solo argomento. Se questo non vi fa determinare, io non mi opporrò più ai vostri desiderii nè vi prescriverò ulteriormente di prostituire un sagrifizio, che sarebbe dispregiato dagli uomini e sdegnato da Dio. Dico anzi di più, che farò quanto dipenderà da me per porre il colmo ai vostri desiderii.
Udendolo parlare con detti tanto piacevoli ed apparentemente sinceri, io stava per gettarmigli ai piedi; ma il timore e l’esperienza mi rattennerò. Promettetemi, egli quindi soggiunse, di seguirmi, e di aspettare con pazienza che io abbia a voi recato questo mio ultimo argomento. Del rimanente vi prevengo, che riesca o no, io non ci annetto gran peso, e poco a me ne importerà.
Io lo promisi e gli tenni dietro fino al parlatorio, ove mi lasciò solo per breve tempo; dopo il quale rientrò con l’aspetto un poco più turbato, e mi accorgeva, che faceva degli sforzi per farsi a me vedere calmato. Egli era molto agitato, nè io poteva discernere, se ciò fosse per me o per sè stesso. Le sue prime parole mi fecero però restar molto maravigliato: Figlio, mi disse, voi conoscete bene la storia antica? — Sì, gli risposi; ma e che ha di comune la storia antica con la mia posizione? — Vi ricorderete senza dubbio di quel fatto memorabile d’un generale romano, che dopo aver rigettato indietro il popolo, i senatori, i sacerdoti; dopo aver conculcate le leggi, oltraggiata la religione,.. lasciossi alfine muovere dalla voce della natura e cedette allorquando la sua genitrice si prostrò davanti a lui dicendo: figlio, se volete entrare in Roma vi converrà passare sul corpo di colei, che vi portò nel seno. — Tutto ciò non mi è ignoto, ma questo a che tende?. — A ciò, gridò egli aprendo con impeto laporta ed aggiungendo: siate, se lo potete, più inflessibile di un pagano. Io mi avanzai; e quale fu mai il mio orrore veggendo mia madre protesa avanti la soglia, colla faccia voltata, verso la terra, e che con voce soffocata mi disse: approssimatevi... inoltrate il passo.... rompete i vostri voti.... ma voi non vi slancerete allo spergiuro, se non passando sul corpo della vostra genitrice. Io voleva rialzarla; ma ella si teneva stretta al suolo ripetendo le medesime parole. Il suo magnifico vestimento, che nascondeva sotto i diamanti e il velluto che abbandonava al pavimento su cui era distesa, faceva un forte contrasto con l’umiltà della sua positura e con la disperazione che esprimevano gli occhi di lei ogni volta ella si alzava un cotal poco per guardarmi. Sopraffatto dall’orrore, dalla tristezza e da mille altri affetti diversi, caudi quasi senza sentimento nelle braccia di mio zio, il quale si approfittò di questo momento per condurmi alla chiesa, dove mia madre ci seguì. La cerimonia cominciò; pronunziai i solenni ed irrevocabili voti, e così la mia sorte fu stabilmente fissata.
Dopo quel momento terribile si succedettero i giorni, passarono i mesi senza avermi lasciato appena una rimembranza. Io ho senza dubbio provate delle sensazioni diverse, ma non me ne è rimasta traccia più di quello che ne rimanga sulla superficie delle onde: i miei sensi ed il mio spirito erano sepolti in un completo stupore. Ciò non pertanto io eseguiva le funzioni che erano proprie del mio stato con una regolarità che non era meritevole di alcun biasimo; ma nello stesso tempo con un’apatia, che escludeva ogni elogio. La mia vita poteva paragonarsi ad un mare senza flusso. La campana, che ci chiamava ai differenti ufficii non era più pronta a suonare, di quello io fossi ad obbedire alla prima sua voce. L’automa costrutto dietro i meglio combinati principii meccanici, e che agisce con una puntualità presso che prodigiosa, non dà motivo di rammaricarsi all’artefice, più di quello che io dessi al superiore e a tutta la comunità. Io era quasi sempre il primo ad intervenire al coro; non riceveva mai visite al parlatorio; quando era dato il permesso di sortire, io lo ricusava. Se per la comunità ricorreva una giornata di penitenza, io la faceva con esso loro; se un giorno di qualche ricreazione straordinaria, io non ne approfittava. Non dimandava mai di esser dispensato dal recitare in coro il mattutino con gli altri la notte o dal digiunare nelle vigilie. Al refettorio io guardava un profondo silenzio, e quando qualche volta andava a passeggiare in giardino, io era sempre solo. Non pensava, non agiva, non vivea, se la vita consiste nel rendersi conto della esistenza ed agire in forza della propria volontà!
Il calore in quell’anno era stato eccessivo, ed è perciò che nel convento si diffuse una malattia epidemica; ogni giorno andavano due o tre di noi alla infermeria, e quelli che avevano meritato delle leggiere penitenze per piccole mancanze commesse, ottenevano per modo di permutazione il permesso di assistere i malati. Io feci di tutto per essere nel numero di cotesti, ed aveva anco risoluto, se bisognava, di commettere, appositivamente qualche leggiera Matusa salvo...............Rom. Fas. XI.
Una sera io sortiva dall’avere assistito alla morte d’uno de’ nostri fratelli, e discesi nel giardino quantunque fosse già inoltrata la notte; cotesta indulgenza, però necessaria per la salute, era stata accordata a tutti quelli che assistevano gli ammalati. Io era sempre pronto a profittare di tal permissione. Il giardino rischiarato dal placido ed equabile splendor della luna, l’innocenza de’ cieli, la mano dell’Onnipossente impressa sulla loro volta, erano per me ad un tempo un rimprovero ed una consolazione. Mi provai a riflettere, a sentire; ma tutti i miei sforzi furono inutili. Forse in cotesto silenzio dell’anima, in cotesta sospensione della voce penetrante delle passioni, noi siamo meglio preparati ad intendere la voce di Dio. M’inginocchiai; non mi era mai sentito tanto disposto alla preghiera. Ad un tratto mi sembrò sentirmi tirare per la veste; tremai come se fossi stato sorpreso nell’atto di commettere un delitto. Mi alzai precipitosamente, e vidi d’avanti a me una persona, che da principio non riconobbi per motivo della oscurità, e che con voce debole e mal si cura mi disse: Leggete questo scritto; ed in così dire mi consegnò in mano un piccolo involto di fogli, proseguendo a dire: Io l’ho tenuto cucito dentro il mio abito per quattro giornate intiere; sono venuto in traccia di voi, e vi ho espiato di giorno e di notte. Ecco la prima occasione che mi si è presentata per potervi parlare; voi eravate ora nella vostra cella rinchiuso, ora in coro, ora all’infermeria. Quando avrete letto questo foglio laceratelo all’istante, e gettatelo a pezzetti nella fontana o piuttosto inghiottitelo..... Addio, io ho tutto arrischiato per voi!
In così dire disparve, ed io lo conobbi: era il portinaio del convento. Compresi molto bene il rischio, cui si era esposto per consegnarmi l’involto, perchè le regole claustrali esigevano, che tutte le lettere dirette ai pensionarii, ai novizii o ai religiosi, come pur quelle, che essi scrivevano, dovessero prima di tutto essere consegnate al superiore; nè io aveva mai veduto in nessuna occasione con travvenire a detta regola.
La luna risplendeva con una luce vivissima, di maniera che si poteva agevolmente leggere. Incominciai dunque: intanto una speranza vaga, senza base nè oggetto, faceva palpitare il mio cuore. Ecco ciò, che il foglio conteneva. Benchè io lo abbia distrutto subito dopo averlo letto, come erami stato caldamente raccomandato, pure fece tanta impressione sopra di me, che trovai il mezzo, dopo qualche tempo, di trascriverlo tutto intiero a memoria.