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rore bianco, alzò la testa inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: «È vero, morire, non c’è altro; dormire ancora. Dormire, dormire.» Sopra il capezzale l’angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio: «Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell’anima sua? Chi lo mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest’ora angosciosa?».

Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch’era stato così pallido altre volte dopo un’ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno dell’anima. Ora non v’era più sdegno in lui nè forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a’ suoi parenti, alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l’invio dei soliti interessi, poichè lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l’aperse.

V’erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:

«Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch’egli può