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perchè era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma, leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un’altra rivelazione. Vide in sè stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni dell’adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia, dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre parole: inetto a vivere. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide nè intese più nulla.

Gli parve svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sè «adesso non sogno». Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava, steso bocconi, in un’acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielo, color d’alba piovosa: e ripeteva seco stesso: «eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo». Era una consolazione profonda e tenera la sua, come si prova in un sogno d’amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d’alba piovosa non procedesse più pel suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: côlto da indicibile terrore, si svegliò.

Si vide davanti, per la finestra aperta, un largo chia-