Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera IX
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LETTERA IX.
AGLI ARCADI.
NOn posso esprimere lo stupore, che sempre più mi prendeva al conoscere le vicende avvenute su questa terra, e in Roma stessa dal mio secolo in qua. Gli avanzi del Panteon, de’ Teatri, degli Acquedotti mi certificavano con mio dolore, ch’io pur era in Roma. Ma il Popol Romano scemato di tanto, vestito come gli schiavi del mio tempo, marcito nell’ozio, e lentissimo nell’operare; sì poche ricchezze in tanta magnificenza di palagi veramente ancora romani; gli artefici scarsi benche eredi del genio antico, e del gusto più sano in ogni genere: gli usi infine, i costumi, i vestiti, e le fogge del vivere mi facevano credere, che se quella era Roma, fosse oggi abitata da cento diverse nazioni, nè più ricordasse d’esserne stata domatrice, e Signora. Gli spettacoli, è vero, più mansueti, e più piacevoli che non gli antichi mi parvero, i templi, e i riti più santi, e più augusti, i commodi della vita, il comercio socievole, la splendida urbanità de’ privati mi ricreavano, e il veder di continuo le Matrone Romane in cento cocchi lucenti più che quel di Giunone, e mezzo ascose dentro una nuvola ondeggiante, e ricca, che si move con loro, tal m’offriva immagine di grandezza, che Augusto egli stesso dopo l’Azziaca vittoria non ne avea tanta sul carro del suo trionfo. Ma quai novità d’altra parte mi venivano innanzi? Quanti incontrava con vesti nere, e con capo sì bianco, ch’io li prendea per canuti, benché d’aspetto più che giovanile, se non avessi scoperta la polve bianchissima che lor dal capo cadea su le vesti. E quanti altri di spada armati, e con essa al fianco a visitare gli amici, ad orare ne’ templi, come se dappertutto temessero assalto, eppur tutt’altro mostravano che d’esser guerrieri. Il non chiamarsi alcun mai che col titolo di Signore, benche nato plebeo, mentre Augusto nol volle parendogli troppo eccelso; il dirsi servo anzi schiavo a cento padroni che s’incontran per via, dopo d’essere stato il Popol Romano Sovrano del mondo, e dopo aver per ischiavi tenuti i Re; e gli onori, le inclinazioni, i gran titoli ad ogni gente profusi, tutto ciò ben parea strano a me, che con Orazio, e con gli altri, diceva Mio caro amico a Mecenate, ch’era l’amico, e il ministro dell’imperadore. Assai temo, che codesti usi vostri siano indizi di vanità, e di debolezza, onde volete nodrirvi d’un’apparente grandezza perduta avendo la vera. Gli antichi Romani ignorarono tutto questo, e signoreggiavano tutta la terra.
Ma venghiamo alla Poesia. Non ho potuto tacervi, amici Italiani, le nuove cose da me vedute, perché d’alcune purghiate la patria, se far si può, e d’altre intendiate la vanità e la follia. Così avvenisse pure degli abusi poetici, e letterarj, che allignan tra voi! Per non annojare me e voi lungamente parlandone eccovi in poco i giudizj, che Greci e Latini portarono intorno a’ vostri Scrittori, poiche dalla terra tornato agli Elisj recai loro certe novelle de’ vostri Poeti esaminati da me senza passione, e con diligenza. Questi egregi maestri pensarono, che a far risorgere l’ottima Poesia nell’Italia dovesse in prima scemarsi la vasta, ed inutile multiplicità de’ Poeti, e dell’opere loro; l’ottimo eleggersi, e di quel farsene quasi un sacro deposito, ad esempio della gioventù, che nacque alla Poesia. Eccovi adunque la lor sentenza.
Scelta, e Riforma de’ Poeti Italiani per comodo della vita e della Poesia.
Tutti gli antichi, o contemporanei di Dante, si consegnino alla Crusca, o al fuoco.
Dante sia posto tra’ libri d’Erudizione, siccome un codice, e monumento d’antichità; lasciando alla Poesia que’ cinque canti incirca di pezzi insieme raccolti, che gli antichi stimarono degni nella lettera terza.
Petrarca regni sopra gli altri, ma non sia tiranno, ed unico. Si ripurghi di una terza parte inutile, e le due parti stesse migliori abbian notate in margine, per evitarsi da i giovani, alcune rime forzate, alcune strane parole, alcuni modi viziosi, e tutte le fredde allusioni.
Le Ottave rime del Poliziano si serbino con alcun piccolo pezzo di Giusto de’ Conti, che non sia tutto Petrarchico; alcune imagini ed espressioni del Tibaldeo.
Bembo, Casa, Costanzo, Guidiccioni e i cinquecentisti tutti riducansi ad un librettino di venti Sonetti, e di tre Canzoni, togliendo a un bisogno quà un quadernetto, là un terzetto, o una stanza, in cui sia qualche nuova bellezza, e mettendo alcuna cosa nelle chiuse, sicche mostrino d’essere un finimento.
L’Ariosto può far de’ Poeti, ed eziandio più regolati di lui. Egli è gran Poeta, se alcuni canti si tronchino dell’Orlando furioso ch’egli stesso condanna, e tutte le stanze che non contengono fuor che turpi buffonerie, miracoli di Paladini, incanti di Maghi, o sozze immagini indegne d’uomo bennato. La macchina del Poema non ne soffrirà danno alcuno. I suoi Capitoli, che han nome di Satire, si rispettino, quand’esse al buon costume, e alla Religione han rispetto. Dalle commedie qualche scena si prenda, che rider faccia davvero, e non arrossire.
Gli Orlandi poi tutti, i Ruggeri, i Rinaldi, gli Amadigi, i Giron Cortesi, e cento siffatti sian tutti soppressi senza pietà, se voglion essere ostinatamente Epici Italiani. Dell’Orlando del Berni conservisi qualche cosa, e tutto ancora, se si trovi il segreto d’animarlo. La grazia naturale di quello stile aureo merita, che si avvivi.
Il Tasso più non si stampi senza provvedimento all’onor suo. L’Episodio d’Olindo, e di Sofronia è inutile. I lamenti d’Armida sono indegni del suo dolore. Erminia si lasci in grazia della poesia. Le piante animate, la mescolanza del sacro, e del profano han bisogno d’emenda. Riducasi dunque a metà tutto il Poema, e correggasi molto lo stile. Ma non si tocchi l’Aminta. Gli si perdonino i suoi difetti per non guastar sì bell’opera ponendovi mano. Roma ed Atene vorrebbono averne una pari. Il Pastorfido ridotto ad onestà e misura serva siccome una bella copia ad onor dell’originale. Ma sia questa copia la sola.
Tutta l’Eneida d’Annibal Caro viva ancor essa per lo stile poetico veramente, e franco. Sia lettura de’ giovani principalmente. Si notino insieme le infedeltà della traduzione con giusta critica. Qualche Sonetto di lui si legga, e la Canzone de’ Gigli d’oro conservisi per monumento del furor de’ commenti, e delle discordie letterarie d’Italia. La traduzione di Lucrezio, quella di Stazio, e quella delle Metamorfosi non si concedano fuor che a’ maturi Poeti, e quest’ultima sia ridotta per ordin d’Ovidio a un terzo, com’egli ha fatto dell’originale.
Il Chiabrera ristringasi in un solo volume, e sia piccolo. Nessun Sonetto di lui v’abbia luogo, nessun Poema, e i modi Greci delle Canzoni, che sono a forza italiani, mettansi in libertà.
Alamanni e Rucellai formino la Georgica dell’italiani.
Dell’Adone si spremano quattro o sei Canti, che ragionevoli siano, e castigati. Se tuttavia pecchino di fumosità, s’adacquino con un poco d’Italia liberata del Trissino.
Il Malmantile, e tutte le Poesie composte di riboboli, d’idiotismi Fiorentini, di pure frasi toscane siano date a’ fanciulli, e a gente oziosa da divertirla come si fa con le bolle alzate soffiando nell’acqua intinta di sapone. Che se vogliono un luogo tra Poeti, abbian l’ultimo nella classe de’ Tassi tradotti in Bergamasco, Bolognese, Veneziano ec. che dove intendonsi dan più gusto, che molti Lirici contegnosi non fanno.
La Secchia rapita conservisi eternamente dopo fatteci alcune correzioni.
Il Ditirambo del Redi sia l’unico Ditirambo Italiano. Noi latini ne fummo senza, nè ce ne duole.
Di Poesie, che voi chiamate Bernesche, il men che si può, e tutto ottimo. Facile è nauseare volendo far ridere. Vivano dunque alcuni pochi Sonetti, e Capitoli del Berni, se ne formino alcuni pochissimi di ritagli presi dal Lasca, dal Firenzuola, dal Mauro, e da tutti i loro compagni. La Vita di Mecenate del Caporali, e l’esequie, ma molto accorciate; e non più di Berneschi.
Di Satiriche ancor meno che d’ogni altra cosa facciasi conto. Un Orazio o un Giovenale già non avete, nè alcuno, che lor somigli. La lingua Italiana non sembra atta a questa poesia, e gl’italiani dan troppo presto all’armi. Il meglio è dunque che Satire non abbiate, e state sani.