Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/XLIII
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XLIII.
AD ANNA BRIGHENTI
a Arezzo
25 Maggio (1833)
Nina mia,
Finalmente ti sei risuscitata: oh sia ringraziato il cielo! ma per carità non morire più, sai, almeno per sì lungo tempo, chè io ne provo troppo dolore, o, in termini più veraci, troppa rabbia. Ma come mai ti salta in testa di fare da maman, tu che sei vivace, leggiera, e vorrei dire anche volubile? tu che hai tanto da pensare a governare la parte sinistra di te stessa, come puoi pensare a faccende corporali, ad affari materiali?.... oh io non so!! Vedi da ciò quale opinione delicata io mi sia fatta di te, che ti considero come persona, tutta spirito (non spirituale) tutta vaporosa... eppure, sai fare anche da maman! Ma cosa ne hai fatto della vera? dove l’hai lasciata? A quel che vedo essa si è annoiata della vostra vita vagabonda, di quella vita ch’io v’invidio tanto: ma, come mai annoiarsene? ei trionfi di Marianna non le accrescono sempre anni di vita? Nina mia, baciami quella tua sorella, e dille che non posso esprimere l’emozione che mi cagiona il racconto delle sue buone venture, le quali desidero il più vivamente che posso che prosieguano lietamente e lungamente. Ringraziala poi della premura che ha avuto di scrivere a Fermo, e pregala ad iscusarmi se ho dovuto annoiare una occupata com’è essa in tutti i suoi momenti. Aspetterò ansiosamente di sapere ove ve n’andiate dopo finite le recite di costi; io spero che ve n’andrete a Firenze; ho gran bisogno che persona amica mi dia notizie vere e precise di mio fratello, sentite, ragazze mie, cosa ci è successo. Negli ultimi giorni del mese scorso, un signore, nostro parente strettissimo, scrisse da Roma alla sua casa di Recanati che nel miglior modo preparasse gli animi nostri a sentire una nuova terribile, quella (ho appena la forza di dirla) che il caro mio fratello Giacomo era agli estremi. Nina mia, furono scene di desolazione e di morte quelle che presentò la mia famiglia al sentire una tal notizia; furono giorni di agonia spasimante quelli che passammo prima che potessimo avere nuove da Firenze, che tutto era stato un sogno! Il nome di Vieusseux mi risuonerà sempre dolcissimo, e mi farà palpitare di consolazione tutte le volte che lo sentirò, poichè egli fu che si affrettò di rispondermi che vedeva Giacomo quasi tutti i giorni, e che niente poteva aver dato luogo ad un tal equivoco. No, non è mai possibile ch’io sappia dire cosa sentii al leggere quella lettera, cosa mi sembrasse la vita dopo quel momento. Ho riveduto poi i caratteri di Giacomo; ed egli si affretta a dirmi che non tema punto, poichè non può morire1: ma che consolazione è questa per me quando pur troppo dalle sue poche righe si vede bene ch’egli è tutt’altro che lieto, tutt’altro che sano?
Nina mia, è una situazione veramente terribile la nostra, la quale con tutta la smania di rivederlo, con la certezza che abbiamo che solo tra la sua famiglia può trovare quella tenerezza e quegl’immensi riguardi ch’esige il suo stato, non ci permette di poter desiderare ch’ei venga tra noi; no, noi non lo possiamo desiderare, chè sempre ci è dinanzi agli occhi il suo malcontento orribile, la sua disperazione! A causa della sua salute, e della debolezza degli occhi scrive rarissime volte, e brevemente assai; e con nessun’altro abbiamo relazione a Firenze per averne notizie frequenti, e perciò passiamo la vita sempre in incertezze, in dolori.
Che triste cosa è mai questo mondo, Nina mia, che cosa abbominevole, odiosa! Se andrete a Firenze, oh dite a Giacomo, anime mie, che così non possiamo vivere, che questo è un continuo dolore, una morte continua. Aspetto dall’amicizia, dalla tenerezza vostra dettagli esattissimi, così possiate darmi notizie consolanti. Vi abbraccio intanto, o mie care, colla più viva effusione di cuore, e vi raccomando di volermi bene.