Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti/XL
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XL.
ALLA STESSA
a Cremona
23 agosto (1832)
Vedo Roma sulla carta geografica, poi cerco Cremona, e vedo..... quanta Italia hai percorso in pochi giorni, ma una tanta lontananza mi affligge, e vorrei piuttosto che, come nell’anno passato, tu ti aggirassi per queste nostre parti, senza pensare poi al dolore che provai tutto quel tempo in cui con due salti ti potevo vedere, e ahime! non ti vidi. E mi rallegra il pensiero che hai fatto il viaggio con cuore quieto, come mi dici: e se è vero, ti devi essere divertita assai, ed avrai veduto molte belle cose, le quali se io te le invidio, immaginalo da te stessa. Spero che mi farai presto far conoscenza con Cremona, ma sopratutto spero che i suoi abitanti si faranno amare da te, e che tu ti farai amare dai suoi abitanti. Parlami dei tuoi compagni; la Cesari la conosco da un pezzo, cioè da Siena in qua. Se sapessi quanto interesse io prendo a questa sorta di artisti, e come tengo bene a mente i loro nomi ora che sono in relazione con una brava cantante, quando prima, leggendo i giornaletti e i dettagli dei teatri, non potevo pure ricordare giammai la distinzione delle loro voci ecc., anche da ciò comprenderesti quanto bene io voglia a quella giovine.
Sono pochi giorni, mi fu fatto il tuo elogio da un signore di Fermo con parole tali che mi cagionarono una commozione dolcissima, e puoi credere se anch’io feci coro alle lodi che ti si davano. Mi parlò dei teatri che in seguito hai fatto con tanto onore, mi parlò della tua famiglia, e tante altre cose volevo chiedergli e tante altre saperne..... ma un’importuna persona, cui non era prudente il far conoscere qual relazione io abbia con te, troncai questo discorso, lasciandomi una memoria deliziosa di quella sera, e di quel momento. Se hai sentito parlare di un maestro Persiani, e della di lui nuova composizione I Saraceni in Catania, rappresentatasi un momento fa in Padova, sappi ch’egli è recanatese, e che le sorelle si raccomandano a me per saperne le nuove.
Io sono inquieta con Nina, inquieta assai. Che per M. Comer dimentichi la sua amica, pazienza: ma per un Tonino... non la posso mandar giù. Io non capisco come Brighenti non le proibisca di scrivergli — ah! quella signorina Nina è una gran furba!
E poi essa invece di piangere, ride — ride quando un amante va in Inghilterra senza di essa, ride quando trova quattro lettere amorose di uno sguaiato studente, ride quando gli risponde, e mi figuro già che riderà anche a Cremona, e chi sa quanto vi riderà. Vorrei sapere però quando piangerà, perchè se non ha pianto per Comer, e di chi pianger suole? Avrei voluto molto bene a quel signorino se faceva ch’io avessi un’amica in Inghilterra: oh allora si ch’egli era impagabile! Se Nina lo ha desiderato anche in sogno, io la compiango e mi affliggo con lei, malgrado lo sdegno che mi ha inspirato col suo silenzio. E qui la bacio e l’abbraccio, e saluto affettuosamente i tuoi genitori.
Ti ringrazio del sonetto — ma vorrei ancora ringraziarti della poesia di Pisa, se quel caro sig. Ignazio (chi è?) mi avesse fatto il piacere di lasciarne qualcuna; chè così la mia raccolta è assai incompleta.
Marianna mia, io ti ringrazio delle tue schiettissime parole, le quali non ti doveva passare neppure un istante pel capo che mi potessero offendere. No, con esse non mi hai offeso, e poi sappi che io già me le immaginavo — così vorrei che già ti fossi immaginata che non ho seguito punto il tuo consiglio. Perdonami, o cara, ma se io parlassi con te saresti certo del mio parere, e diresti che ho fatto bene a ricusare quel tale che mi voleva. Quello che dici, che le azioni e le virtù formano il più bel cognome, va bene; ma, se io non avrò per marito uno del mio grado, che conti, come dici, i quarti di nobiltà che ho io, almeno dovrà essere uno che per i suoi talenti, per il suo ingegno, per le sue azioni si sia fatto un nome, non uno di cui debba arrossire ogni momento, ogni volta che parla mi ami egli pure quanto vuole, non è affatto certo che io possa amarlo, che possa amare una persona tenuta da tutti per meschina in ogni genere: l’amore di una tal persona non ha nessun pregio agli occhi miei perchè io non posso nè stimarla nè amarla — e se un’occhiata della persona amata compensa di tutto, se, come dice la Staël, questa occhiata è una felicità tale che pare non vi sia forza per sostenerla, e bisogna chinare gli occhi, bisogna ch’essa sia realmente amata di fatto e non di solo diritto. Ora, Marianna mia, quel signorino è di un ingegno oscuro come il suo nome! Ma non ti ho detto che i suoi compagni lo motteggiavano e che perciò egli non se ne è allontanato: non ti ho detto che si fece mettere in ridicolo tempo fa per un ricorso ch’ei fece contro una inferocita giumenta; non ti ho detto che pochi giorni sono mio fratello mi parlava con disprezzo di lui raccontandomi alcune cose che gli aveva detto qualche momento prima ed erano tutte sciocchezze, e mio fratello non sapeva niente del mio affare, non ti ho detto tutte queste cose, o non le credi?
Credi pure, o cara, che eran troppi i sacrifizi che dovevo fare — poi, propriamente in questi giorni una lieve aura di felicità gustata per un momento mi ha fatto comprendere per chi io farei senza neppur pensarvi qualunque sacrifizio, e mi ha fatta misurare l’immensa distanza e differenza fra uno ed un altro — e, passato quel momento, la di cui rimembranza vivrà un pezzo nel mio cuore, presi la mia risoluzione e non ho voluto sentir più parlare di questo affare.
E se io ti posso anche giurare che, appena proferito il no, mi sentii togliere dal cuore un peso enorme, e che ogni volta che penso di essere liberata dal pericolo di accettare quell’offerta odiosa mi sento felice, estremamente felice, non crederai che questo sia segno sicuro ch’ei mi era antipatico? e perchè non lo crederai, Marianna mia? Io già lo so che mi sono ricalcati i miei ferri da me stessa, pure credo che non verrà mai un momento in cui abbia a pentirmi di questa risoluzione, dovessi anche stare in ferri tutta la vita! Ma tu quanto sei buona, o cara! Io ti bacio con inesprimibile affetto, e ti prego a non sdegnarti meco, — io sarei perduta!