Lettere (Seneca)/Lettera IV
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LETTERA IV
Subito hodie nobis Alexandrinæ naves etc. Ep. lxxvii.
Oggi in un subito sono comparse da noi le navi Alessandrine, le quali si sogliono mandar innanzi a far intendere la venuta del restante dell’armata, e però le dimandano corsiere. Queste sono volentier vedute da quei di Terra di Lavoro: e la gente di Pozzuolo tutta corre all’alto per vederle, e dalla sorte di vele conosce le Alessandrine, ancorchè fussero tra mille navi. Perciocchè a queste sole è permesso di spiegar la vela della gabbia, che per l’ordinario hanno tutte le navi: non essendovi cosa che ajuti più il corso, che la più alta parte della vela, dalla quale la nave è sopra tutto spinta. E però vedemo che quando cresce il vento, e vien maggior che non bisogna, s’abbassa l’antenna, perchè al basso ha manco forza il vento. E poichè cominciano ad entrar nell’Isola Caprea, et a toccar il promontorio, donde
Da l’alta sommità Pallade mira,
i capi dell’armata comandano che tutte l’altre portino solo le vele maestre, e però quelle della gabbia son manifesti indizj dell’Alessandrine. In questo comun discorso di tutti che corrono al lito, ho preso gran piacere della pigrizia mia, che dovendo ricever lettere degli miei, non affrettai d’intendere in che stato fussero di là le cose mie, e quel che mi portassero di novo. Già lungo tempo fa io non posso nè perdere, nè acquistar cosa alcuna; e di questo parer dovevo essere, ancorchè io non fussi vecchio come sono. Ma ora molto più devo aver quest’animo, perchè per poco ch’io avessi, non dimeno m’avanzerebbe molto più del viatico, che di via; massimamente essendoci noi messi per una strada, al fin della quale non siamo forzati di venire. Il viaggio sarà imperfetto, e ti fermerai o nel mezzo, o poco di qua dal luogo, dove disegni d’andare. Ma la vita non si può dimandar imperfetta, ognivolta che sia onesta. In qualunque termine finischi la vita, purchè la finischi bene, puoi dir ch’ella sia tutta; e molte volte si deve finir con fortezza d’animo, senza che s’abbia anco gran cagioni1: perciocchè non sono tampoco grandi queste che ritengono noi. Tullio Marcellino, che tu conoscerai, giovane riposato, e vecchio avanti il tempo, assalito da un’infermità, non già incurabile, ma lunga e fastidiosa, e che richiedeva molte cose; cominciò a deliberar s’egli si dovea uccidere; e raunò molti amici, ciascheduno de’ quali, o perchè era timido, gli persuadeva quel che averebbe persuaso a se medesimo; o perchè era adulatore, gli dava quel consiglio, che s’immaginava che potesse esser più grato a colui che deliberava. L’amico nostro Stoico, uomo raro, e forte, e strenuo, per lodarlo con quelle parole ch’ei merita, parmi che l’esortasse molto bene. Perciocchè così gli cominciò a dire: “Non ti tormenta, Marcellino mio, di questo, come se tu deliberassi d’una gran cosa. Non è gran cosa il vivere, perchè anco gli servi tuoi tutti vivono, e tutti gli animali: gran cosa è il morir onestamente, prudentemente, e fortemente. Considera quanto lungo tempo è che non fai altro, che mangiare, dormire, et attendere alla libidine; nè s’esce mai di questo giro. Può risolversi di voler morire non solo un prudente, et un forte, ovvero un misero, ma ancora un fastidioso.” Egli non avea però bisogno di chi lo persuadesse, ma solo d’un che lo ajutasse a mandar ad effetto l’animo suo, perchè i servi non lo voleano in questo obbedire. Però prima tolse loro la paura, e mostrò che allora può cader in pericolo la famiglia, quando fusse dubbio, se la morte del padrone fusse volontaria, o no: e che essendo certo che sia di sua volontà, di tanto mal esempio sarebbe l’impedir il padrone che non s’uccida, quanto ammazzarlo. Poi esortò Marcellino, dicendogli che, come finita la cena si suol dividere quel che resta agli circostanti, così non esser cosa inumana, che nel finir della vita si doni qualche cosa a quelli, che sono stati ministri d’essa vita, mentr’ella è durata. Era Marcellino facile d’animo, e liberale anco del suo medesimo: sì che distribuì certe piccole somme di danari a’ servi che piangevano, e si mosse anco per se medesimo a consolarli. Non gli bisognò già oprar il ferro, nè spargere il sangue. Perciocchè tre giorni s’astenne dal mangiare; e comandò che si ponesse nel letto il tabernacolo, dopo il quale fu portata anco la cassa da mettere il cadavere, dove egli giacque pur assai, e mancando il calor naturale a poco a poco venne meno, non senza un certo piacere, com’egli diceva, che suole apportare un leggier mancamento d’animo, che noi solemo provare, ai quali talvolta suol mancar l’animo per debolezza. Io ho dato in una favola, che a te doverà esser grata, intendendo per essa l’esito dell’amico tuo nè difficile, nè misero. Perciocchè con tutto ch’egli s’abbia dato la morte; non dimeno è uscito di vita dolcissimamente, e piacevolissimamente. Ma non ne sarà però inutile questa favola; perchè molte volte la necessità richiede un simile esempio. Molte volte noi dovemo morire, e non volemo; moremo, e non volemo. Niuno è tanto ignorante, che non sappia che una volta gli convien morire, e non dimeno, quando s’avvicina la morte, si difende, e trema, e piange. Non giudicherai tu più d’ogn’altro pazzo, un che pianga di non esser vissuto mill’anni avanti? Or egualmente è pazzo, chi piange che non sia per vivere dopo mill’anni. Il dover essere, e il non essere stato van del pari; perchè l’uno, e l’altro di questi tempi è d’altrui. Tu sei stato mandato in questo punto presente: e per allungar questo punto, fin dove pensi d’allungarlo? Che piangi? Che desideri? Tu perdi l’opera:
Pon fine al tuo sperar ch’unqua con prieghi
Si pieghino gli fati de gli Dei;
perciocchè sono fermi, e stabili, e son guidati con grande, et eterna necessità. Io vado, tu anderai dove van tutte le cose. E come questo t’è novo, sapendo che sei nato con questa legge, e che il medesimo è avvenuto a tuo padre, a tua madre, il medesimo agli tuoi maggiori, il medesimo a tutti quelli che sono stati innanti a te, et il medesimo avverrà a tutti quelli, che saran dopo di te? Questo ordine insuperabile, e che non si può mutar con rimedio alcuno, lega, e tira ogni cosa. Quanta moltitudine di mortali ti seguirà; quanta ti terrà compagnia? Io m’immagino che tu crederesti di morir più animosamente, se teco moressero molte migliaja di persone. Or sappi che molte migliaja d’uomini, e d’animali in quello stesso momento, che tu dubiti di morire, mandano fuori l’anima con varie sorti di morti. Ma tu non pensavi di dover pervenire una volta a quello, a che te n’andavi di continuo? Non è viaggio alcuno senza fine. Tu pensi forse ch’io ti voglia ora riferir gli esempi d’uomini grandi in questo proposito; ma io ti voglio solo addur de’ putti. Si tien memoria di quel Lacone sbarbato ancora, il quale essendo fatto prigione gridava in quella sua lingua dorica: Io non servirò mai; e congiunse anco la fede alle parole: di maniera che essendogli imposto che facesse un mestier da servo, e ignominioso, comandandoglisi che portasse il vaso osceno; battendo la testa nel muro, se la ruppe. Dunque uno è sì vicino alla libertà, e pur serve? Così tu non vorresti che tuo figliuol morisse in questo modo, più tosto che invecchiasse per poltroneria? Perchè dunque turbarti, se il morir con fortezza d’animo è anco cosa puerile? Pensa pur di non voler seguitar gli altri, che ad ogni modo sarai condotto per forza. Fa che sia in potestà tua quel ch’è sottoposto ad altri; non ti verrà lo spirito di quel putto, sì che dichi: non servirò mai? Infelice che tu sei, poichè servi agli uomini, servi alle cose del mondo, e servi anco alla vita; perciocchè levando la virtù del morire, la vita è una servitù. E che cosa ti spinge ad aspettar tanto? Tu hai già consumati tutti quei stessi piaceri, che ti ritardano, e ti ritengono: nessuno t’è più novo, e niuno è che non ti sia in odio per l’esserne già sazio. Già tu sai che sapor abbia il vino, e quale è il mulso: non è differenza alcuna, che per la tua vessica passino cento, o mille anfore, perchè ella è un sacco. Tu sai molto ben che sapor abbino l’ostriche, e i barbi: la tua lussuria non t’ha lasciato cosa intatta per questi anni che seguono; e non dimeno queste son quelle cose, dalle quali tanto mal volentieri ti spicchi. Perciocchè che altro ti puoi doler di lasciare? Gli amici forse, e la patria? Dunque tien tanto conto di questi, che t’adduchi a cenar più tardi che non devi, e che per esser con essi estinguessi anco, se tu potessi, il sole? Perchè che cosa hai mai fatto, che sia degna di luce? Confessa pur, confessa, che il voler esser così tardo a morire non vien dal desiderio, che abbi nè della corte, nè del foro, nè delle cose della natura; ma solo perchè mal volentier lasci il macello, nel quale non hai lasciato cosa alcuna. E se temi la morte, come la disprezzi nel mezzo della recreazione? Vuoi vivere, perchè sai vivere, e temi di morire. E che? Forse che questa vita non è morte? Cesare, passando per la via Latina, essendo pregato da uno della squadra della guardia, che avea per vecchiezza la barba bianca fin al petto, che gli desse la morte; che, disse, ora credi tu di vivere? Questo si deve rispondere a costoro, ai quali vien in ajuto la morte: Temi di morire? perchè credi tu ora di vivere? Ma io (mi dirà) voglio vivere, perchè faccio molte cose onestamente; e perchè malvolentieri abbandono questi debiti della vita, che faccio fedelmente, e con industria. E che? Dunque non sai tu, che uno degli debiti della vita è anco il morire? Tu non lasci officio alcuno, perchè non si prescrive mai certo numero, che si debbia compire. Non è vita che non sia lunga. Perchè se averai considerazione alla natura delle cose, la vita anco di Nestore, e di Statilia è breve, la quale comandò che si scrivesse nel suo monumento, ch’ella era vissuta nonantanove anni. Vedi che vi è pur chi si gloria d’una lunga vecchiezza: or chi l’averebbe potuta comportare, se gli fusse stato per sorte concesso di giungere al centesimo? Come nella favola, così anco nella vita importa non quanto lungo tempo sia durata, ma quanto bene. Non rilieva punto in che luogo resti di vivere: lascia pur dove vorrai, purchè vi metti un buon fine. Sta sano.
Note
- ↑ Pare impossibile che Seneca tenti, magnificandole, di ribadire con tanta forza in capo all’amico, a cui scrive, le frivole ragioni, onde bello ed utile è il fatale eroismo del suicidio, che noi più veramente dimandiam la peggior pazzia, che appiccarsi possa a cervello umano; quel Seneca che, caduto in disgrazia del suo Scolare e Tiranno Nerone, non ebbe poi cuore di prevenire, comunque uccidendosi, il supplicio capitale, a cui stato era condannato. Perchè non venne a questo filosofo il suo Stoicismo in soccorso, e perchè ciò non fece, di che vuole altrui persuadere? Tanto è vero che passa divario immenso tra il predicar una massima, e il metterla in esecuzione. Nota dell’Editore.