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fra paolo sarpi. | xlix |
o di Borro, ateo e furfante sfacciato, e protetto da quella famiglia di principi che non aveva osato schermir Galileo. Erano i tempi ne’ quali l’eruditissimo e dabben Casaubono diceva: si atheus essem, Romæ essem. E nota il Naudè una ipocrisia che correva, di difendere l’immortalità dell’anima a fine di mostrare in realtà le obbiezioni. La fama del Pomponaccio, del Cardano e de’ Ciceroniani, era recente e in bocca di tutti. L’inquisizione lasciava in qualche modo passare (ed anche ne’ dialoghi filosofici del Tasso se ne può trovar testimonio), purchè non si toccasse al papa e alla scolastica, e non si ambisse alla popolarità: in que’ casi era inesorabile. Il suo dilemma in realtà, parlando di quel che faceva in Italia, non era o credi o muori, ma o sii ipocrita o muori. Il Sarpi non volle essere ipocrita, e Iddio lo campò dal coltello de’ suoi nemici; e fu cristiano grave, e in certo modo solitario, perchè poca fiducia in Dio trovava anche ne’ suoi amici più cari, che imitavano le arti de’ Gesuiti, anzichè procedere onesti, semplici, dignitosi.
Fra Paolo fece prova di una somma accortezza governativa nel difendere le ragioni di Venezia. Come Machiavelli fu più grande della sua Firenze, così fu il Sarpi della sua città. Codesti ingegni superlativi erano nati per l’Italia e pel mondo. Fra le miserie grandissime della patria nostra impotente, questa è stata, a parer mio, la più acerba: che i suoi grandi uomini non potessero fare che cose di gran lunga minori della potenza del loro ingegno, quando