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xlviii | fra paolo sarpi. |
fortò coll’aiuto de’ sacramenti le sue ore estreme, e si affisò al Crocifisso, e la sua fede in Dio nelle novissime sue parole lampeggiava per l’ultima volta: «Andate a riposare, ed io ritornerò a Dio onde sono venuto.1»
Io dico che pregio principalissimo del Sarpi era la schietta e sincera pietà religiosa in quel tristo seicento, in cui i romanisti, per adorare il papa, dimenticavano Iddio; e il popolo di una pomposa superstizione nodriva la sua fantasia con le immagini venute dal cielo, come la Madonna dell’Impruneta e san Domenico di Soriano, con sacri amuleti, con sontuosissime cerimonie, e feste e canti, buone per sè, ma non sufficienti alla vera e purificatrice religione cristiana, che vuol che il tempio principale sia nel cuore, e il rito principale nel sacrificio nostro conforme a quello di Cristo. I dotti poi erano per lo più parte avveroisti, materialisti, atei; e come i dotti, era la gente che senza professar filosofia avevano coltura e gentilezza. Il Naudè, che visitava l’Italia nella prima metà del secolo XVII, racconta che tutti costoro, e dotti e colti, in Bologna, in Padova ed anco in Roma, ripetevano e professavano la massima formulata dal Cesalpino, ch’ei conobbe di persona: intus ut libet, foris ut moris est; tantochè, non era poi affatto un’impudente menzogna quel che diceva il Vanini del gran numero degli atei anche fra i principi utriusque, vale a dire laici e cherici. Erano i tempi di Beregardo
- ↑ Lettera del Superiore del Convento de’ Serviti al Doge; pag. 450, volume II.