Lettere (Campanella)/VIII. A Cintio Aldobrandini cardinale San Giorgio

VIII. A Cintio Aldobrandini cardinale San Giorgio

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VIII. A Cintio Aldobrandini cardinale San Giorgio
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VIII

A Cintio Aldobrandini cardinale San Giorgio

Domanda all’eminentissimo Cintio Aldobrandini, di cui ha sempre desiderato di essere servitore, di farlo venire a Roma: egli che si è conservato con la stoltezza dove era odiosa la virtú, confuta il tentativo di ribellione, dice finta l’eresia, mostra quanto poco abbia lui da vedere con quel che fece fra Dionisio; e dopo d’aver discorso de’ giudici passati e presenti della sua causa, ripete le sue proposte e promesse ed elenchi, ricorda che da dieci mesi tratta per avere un colloquio con l’inquisitore, col nunzio, col viceré, ed ora che finalmente ci è riuscito, è rimasto deluso, perché ha dovuto verificare che si burlano di lui: non può esser giudicato che dal senato de’ cardinali, egli che è il solo che può far intendere il vero.

All’illustrissimo e reverendissimo
monsignor Cardinal Sangeorgi, padrone colendissimo

Il glorioso nome ch’ha Vostra Signoria illustrissima di favorir la virtú non solo ne’ servi suoi, quia «et ethnici hoc faciunt», ma in tutte le persone, e stimarsi a tutti nato, sempre mi fe’ desiderare d’esserli servitore, come sa; né mai ne fui degno. Però adesso questa sua apostolica cortesia mi fa animoso a dimandarle grazia che s’adopri con Sua Beatitudine ch’io venga in Roma a difensar la causa mia e far cose di grande importanza per la chiesa di Dio, che non per altro, come sentirá, m’ha conservato da tante morti in mezzo di nemici potentissimi, col freddo dove nocea il caldo, e con la stoltizia dov’era odiosa la virtú. Né senza miracolo, da tante persone guardato, scrivo questa; e prego non si sappia dalla parte, perché piú non mi affligga in questa fossa oscura e puzzolenta, dove mai vedo cielo né luce, sempre inferrato, e di fame e di guai oppresso.

E certo queste son l’armi con le quali meco combatte la parte avversa; ché di ragioni le darei, d’ogni cento, cinquanta e la mano, se con quelle volesse oppugnarmi e non con violenza [p. 33 modifica]tanta, ignota al re, alle cui orecchie veritá non arriva: ché la gente bassa non ardisce dirla, e gli satrapi mi son contrarii e l’un con l’altro si rispettano; e l’orecchie del principe son assediate per me sempre. Anzi con ragioni di stato sataniche li persuadeno che non mi doni alla chiesa, e non mi lasci defensar secondo il canon pastoralis De sententia et de re indicata in Clementinis e secondo la ragion naturale, dubitando non si scoprano li latrocini di Calabria e l’infamia ch’han dato alla provinzia di sediziosa, e per conseguenza al re di tiranno. Son li regi gelosi dello stato piú che della innamorata; e la gelosia fa parere ogni mosca cavallo; e crede ciò che li è detto, e cerca tôrsi via ogni sospetto o vero o falso; quindi è che tutti i filosofi delle nazioni, come scrive Piatone e Senofonte nella difesa di Socrate, fûr accusati d’eretici e ribelli, e cosí tutti profeti ed apostoli e nostro signore Giesú.

Dunque, sappia che la ribellione mia è come quella d’Amos contra cui scrissero li satrapi: «rebellat contra te Amos, o rex Ieroboam»; e di profeti si legge tal accusa: «benedixit Deo et regi». E la eresia è cosa finta da noi frati per schifar la prima furia, perché ci voleano far morire inconsulto pontifice, facendo processo contra il papa e cardinali e vescovi, e contra lo stesso viceré ch’era mio amico, che voleamo ribellare il regno a tempo ch’erano interdetta la cittá di Nicastro e scommunicati tanti officiali, principi e baroni, ed ogni piazza era piena di dispute di giurisdizione, ed occorsero inondazioni, terremoti e visioni in aria, per le quali io predissi la rovina della provinzia, come avvenne; ché la corsero armata manu e la disertâro d’ogni bene, ed ognun si componea in danari, perché si dicea che ci facean morire senza processo.

Talché per parer nemici al papa, si disse la eresia: e giá s’è visto il vero, poiché fummo posti a giustizia e tutti liberati, e cosí anche della ribellione, ed io non ho altro testimonio esaminato in mio loco se non Maurizio Rinaldis, a cui fu promesso la vita sub verbo regio, che dicesse su la forca quel ch’in mille tormenti negato avea; e poi l’ingannâro. Fra Dionisio fuggío ed appostatò: ché tanto si grida lupo lupo [p. 34 modifica]al cane, che diventa lupo. Se ben Dio lo permesse: ché gran causa fu egli di quelli romori, perché volea uscir in campagna ad uccider un frate che fe’ ammazzar suo zio; e riferia quelle profezie mie a questo fine variamente. Ma come si difende san Gioanni, mi difendo io: «non erant ex nobis si exierunt ex nobis, nam permansissent nobiscum»; e Cristo signor nostro: «erunt duo in eodem lecto, unus assumetur, alius relinquetur».

Ed è tanto chiara l’innocenza, che non si fidano venir alla luce del tribunal ecclesiastico a contender meco; ma sotto le fosse, che non possa parlare né scrivere, né dir cosa se non quel, come, quando ed a chi essi vogliono; e li giudici passati servîro pro forma — nella causa di me solo, dico, — e li presenti per ombra. E perché sappia che non cercano il ben del re, ma coprir l’inganno — e così ingannano il viceré, — li mando quest’utilissime promesse ch’ho fatto al re ed alla santa chiesa: e mirabilissime, nelle quali non mi voglion sentire, perché la prova non li condanni di calunniatori. E di piú il Signore m’ha fatto grazia di molte revelazioni e di miracoli per beneficio della chiesa e dell’imminente roina, e li mandai a Roma; e non son inteso. Io dico che son savi a non credermi, ma imprudenti e maligni a non voler veder la prova. Però supplico m’aiuti con Sua Santitá ch’io venga in Roma; e se mento, ci è fuoco per me, e mi pôn rendere anche a gli avversarii poi e saziarli: e con tal condizione Vostra Signoria illustrissima mi può favorire col re e con Sua Beatitudine, giá che si tratta il ben della cristianitá.

E le roine ch’io nelle stelle antevidi, ora l’ho per revelazione di miglior maniera; e ’l tempo li scopre dopo la congiunzion magna del 1603 e sequenti eclissi e mutazion d’apogei, eccentricitati, obliquitá d’equinozii e solstizi, e confusion di figure celesti e calata del sole verso terra, antevista da san Gregorio e da me predicata contra li filosofi ed astronomi che rendeno cause per cause ed occultano il Vangelio. «Virtutes coelorum movebuntur», perché ci sopravenga il Signor come ladro di notte a noi ancora «qui non sumus noctis neque tenebrarum». E giá si vede che Roma, per la zizania delle scienze umane [p. 35 modifica]e per la ragion di stato opposta alla ragion divina in quelli chi «terrena sapiunt», ha di patire in questo, sendo avvenuto quel che [a] Gerosolima nel primo. «Milvus in coelo cognovit tempus suum, turtur et hirundo et ciconia custodierunt tempus adventus sui, populus autem meus non cognovit iudicium Domini.

Quomodo dicitis: Sapientes sumus et lex Domini nobiscum est?

Vere mendacium operatus est stylus mendax scribarum etc.».

«Ego polluam sanctuarium meum, superbiam imperii vestri etc.»; e «stridebunt cardines templi etc.». Ma non si legge li profeti e «guai a me!» dice. ...

In primis prometto, sotto la pena d’essermi tagliata una mano se mento, di augumentar le rendite del regno di Napoli a centomila ducati piú che l’ordinario, con facilitá e consolazione di vassalli, e gloria del re: e ’l medesimo nello stato ecclesiastico.

2°. Far guadagnar al re per una volta cinquecentomila ducati, impiegandoli ad un gran negozio necessario a fare l’imprese d’Europa con beneficio di popoli e gran profitto alla monarchia catolica.

Questo prometto, perché dicono ch’hanno speso tanto per causa mia, e fu per causa di don Luigi Sciarava scomunicato, che fe’ lo processo occulto e falso per vendicarsi contra il viceré suo nemico, e contro il vescovo de Milito e d’altri ecclesiastici; e noi voltammo il male a voi per manco male. Ma perché dicono che volevo far male alla chiesa ed al re, prometto far le sequenti imprese e libri perfetti in venticinque mesi, chi non possano notarsi d’eresia né d’errore né di stiratura di senso né d’adulazione, fortificati di ragioni convincenti ed autoritá della Bibbia e di santi padri e di sapienti d’ogni nazione; e risponder ad ogni contradicente usque ad satisfactionem animi e sotto pena della vita....

Illustrissimo signore, queste cose proposi; e non son udito, perché non al re si serve ma all’ambizion di nemici possenti. Li mandai a Sua Santitá; non so che fará. Di piú, sappia ch’io sempre ebbi questi concetti per levar le macchie ch’ebbi nel Santo Officio; del che non so se ammiri, sendo scritto: «vidi [p. 36 modifica]iustos quibus mala proveniunt tanquam opera egerint impiorum».

E di piú avevo fatto molti libri di queste materie per il re, e non mi lascian presentarli: e cosí per la chiesa, affin si veda ch’io edificavo quel ch’essi dicono che distruggevo; ed oltre, le conclusioni che pensavo in Roma l’anno santo sostentare, tra le quali vi son molte delle mutazion di questo secolo. Posso mostrare li seguenti libri ch’ho fatto, onde anche si mostra che quel ch’io prometto è conveniente al mio genio.

In primis scrissi un gran libro di Discorsi sopra lá monarchia di Spagna ad istanza del regente Marthos, e del fine e modo de finire di tutte signorie umane per profezia naturale e divina e politica. ...

Di piú, sappia il sacramento del giudicio divino: come io vedendo tra cristiani la medesima via naturale di difensar la legge con l’armi, con l’argomenti logicali, con il martirio e miracoli, e con l’Inquisizione essere in tutte le altre nazioni, ché ognuno si vanta aver queste prove; e che noi abbiamo perduto quello spirito lo quale ci facea manifestamente diversi dalle altre nazioni — onde la santitá delli moderni fa dubitar di quella degli antichi; — e che ogni cosa è ragione di stato, «et qui profitentur verbis se nosse Deum, factis negant», mi posi ad esaminar il Vangelio con le leggi di tutte le genti antiche e moderne, e con le sètte di filosofi antichi e moderni, e con tutte le scienze che caminano fra gli uomini. E perché io assicurassi me e gli altri, m’avvenne quel ch’è scritto nella Sapienza: «In tentatione ambulat cum eo: tribulationem et metum inducet super illum et cruciabit illum in tribulatione doctrinae suae donec innotescant cogitationes suae». E poi: «laetificabit illum et denudabit absconsa sua». Voglia Dio sia vero di me l’ultimo come il primo.

Or avendo visto nella nativitá d’un uomo ignoto ch’era inclinato alla profezia, l’insegnai il modo di disponersi all’influsso divino; e perch’io non poteva trattar con quello, ed esso abusava li doni di Dio, li comparse il diavolo come angelo, e n’insegnò assai cose future di tutti regni e la rovina di Venezia e mutamento del papato. Io dimandai segni, come [p. 37 modifica]Gedeone, per saper s’era angelo o dio, e li promise; ma vedendo ch’io lo stringeva in alcune openioni che c’insegnava, mi fece ponere in questa fossa con arte indicibile, che non posso scriverla; e fe’ capitar male quel pover uomo senza ch’io lo sappia. Qui aspettai dal cielo scienza e libertá dui anni, come m’avea promesso il diavolo; e non riuscendo, m’apparsero molti demonii in varie forme e spesso mi tormentâro. Mi son posto in orazione e divozion ex toto corde; e Dio mi mandò mia sorella, che fu sibilla, — morio come santa, — e san Pietro e san Paolo: e m’insegnâro la veritá di dette profezie del diavolo, e come ci avea ingannato, e quel che disse di vero e di falso, e come lo sa e come s’inganna.

E son dieci mesi che tratto di parlar al viceré ed alli prelati, alli quali finalmente parlai e vedo che si burlano come io mi burlavo di mia sorella qualche volta. E Dio mi donò autoritá, secondo il decretale, come quella di san Gioan Battista alli farisei, e miracoli piú stupendi che quelli di Mosè e Faraone; e lo dissi a questi prelati, e non credeno: nel che son prudenti, ma tirati d’altrui malizia a non voler veder la prova, tanto piú che questi miracoli han di convertir giudei, turchi, persiani e gentili alla fede, ed unir li cristiani in caritá e raccender fra loro la fede morta. E di questo m’obligai, ed obligo, a pena del fuoco s’io mento.

Per tanto supplico che faccia veder a Sua Beatitudine che «spiritus ubi vult spirat», e che voglia veder esperienza che questo forsi sará il rimedio del negozio di Venezia: ché sempre ci è tempo a darmi alli avversari s’io mento. Non cerco se non parlar a Sua Beatitudine, e non fingo col Santo Officio, perché la finzione s’usa contra la violenza, come insegna san Geronimo per l’esempio di David e di Solone; ma dal Santo Officio ebbi sempre misericordia e ragione: cosí l’avessi io qua. Dunque, per fine, supplicando di questo favore, ch’è beneficio universale, mi resto. Scrissi ad altri signori cardinali — utinam andiant e Dio non ci abbia indurato, «qui seducit corda principum, adducit sacerdotes inglorios et consiliarios ad stultum finem et optimates soppiantat», come dice Iob. Queste non sono [p. 38 modifica]prove di vecchiarella; né da uomo chi sta in India, e non puoi veder prova; né di chi non si è soggetto, che non puoi stringerlo alla veritá. Dunque, etc.

[Napoli,] a’ 30 di agosto 1606.

Taccia la lettera se li par bene. Io confessai alcune cose con la cautela del capitolo dilecti filii Cistercenses . De accusatione, e non mai ribellion né eresia. Ma perché questa è causa di tutto il senato di cardinali illustrissimi e non di giudici bassi, non m’ascoltano, né pònno. E cosí anche il nunzio passato non m’intese; ché non basta leggista solo a cose tali, e sempre condannâro li profeti questi giudici di legge con errore, come si sa. Però solo da me potrá intender il vero, lasciandomi parlare in abundanza di scienza, e non concisamente «ad laqueum et ruinam», sí e no, «va’ alla fossa, crepa!» etc. O Dio, provedi presto. Non caderá una lettera di quanto disse santa Caterina da Siena etc. Ma scrissi a Sua Beatitudine assai: può vederlo. Dio sia con noi.

Fra Tomaso Campanella,
spia dell’opere di Dio.