Lettera a Ruggero Bonghi intorno al vocabolario

Alessandro Manzoni

1868 Indice:Opere varie (Manzoni).djvu Lettere letteratura INTORNO AL VOCABOLARIO Intestazione 2 giugno 2008 75% Lettere


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LETTERA

INTORNO AL VOCABOLARIO



Carissimo Bonghi,

Il chiarissimo signor professore Tigri, nella lettera inserita nella Perseveranza, del 24 marzo, mi ha fatto l’onore di nominarmi, con queste parole: «Non dubito punto che, quando il Manzoni diceva che l’idioma nazionale dovesse essere il fiorentino, non volesse intendere il buon toscano.» Nel cappello premesso a quella lettera, voi, da bon amico e da bon complice, avete detto che per fiorentino intendevo fiorentino. E sta bene; ma ora dovete concedermi un posto nella Perseveranza, per dir le ragioni che mi fanno pensar così.

Non intendo con ciò, neppur per idea, di venire a contesa col dotto Professore. Quando mi ci portasse il mio genio (cosa che non è, come sapete), le sue parole non me ne darebbero, nè il titolo, nè il mezzo diretto. Dell’attribuirmi l’opinione da lui creduta giusta (che non è se non un tratto di benevolenza) egli non adduce alcun motivo; e sarebbe cosa sconveniente da parte mia, l’andarne fantasticando, e arrogarmi di far io di mia testa, il suo tema per combatterlo. Quelle parole dunque, e ancor più le vostre, sono per me una semplice occasione, o un pretesto, se volete, per litigare con molti, i quali oppongono il toscano al fiorentino, come il vero mezzo per dare in fatto all’Italia una lingua comune.

Le loro ragioni sono note abbastanza per l’uso che n’avrò a fare, e delle persone io non ne conosco veruna: è tutto ciò che ci vuole per litigare, e con cognizione di causa, e con libertà. Se a qualcheduno di loro verrà sotto gli occhi questa lettera, e se, o la noia o il dispetto non gl’impedirà d’arrivare alla fine, spero che la mia intenzione tutt’altro che ostile gli apparirà abbastanza chiara per rabbonirlo.

Avrò a toccar di novo cose che ho già dette altrove; ma sarà per necessità del ragionamento, e servirà a metterle in maggior lume.

Siccome poi non si può disputar di nulla, senza prender le mosse da un qualche punto su di cui si sia d’accordo (altrimenti s’avrebbe a andare indietro all’infinito); così do per sottintese, senza timore d’essere contradetto, le due proposizioni seguenti: la prima, che il fine da volersi è che l’Italia possa acquistare una lingua comune di fatto; l’altra, che un vocabolario è un istrumento efficacissimo per un tal fine.

Posto ciò, la questione si riduce a cercare se, ad ottenerlo, convenga più che il vocabolario sia formato, o sul parlar di Firenze, o sui parlari della Toscana.

Ma per non lavorare in aria, è necessario prima di tutto esaminare se [p. 616 modifica]e quale di queste due cose, tra le quali s’ha a fare la scelta, somministri il mezzo di formare un vocabolario, non in qualunque maniera, ma logicamente, e con un resultato definitivo. È troppo evidente che, dove mancasse una tal condizione, tutte le ragioni secondarie che si potessero addurre, non riuscirebbero ad altro che a perdita di tempo, e a traviamento di raziocinio.

Ed è una tale questione preliminare, che tenterò di sciogliere in questa lettera, mettendo alla prova le due cose l’una dopo l’altra, e principiando da Firenze, che è quella che mi darà meno da fare.

Scelgo dunque (in idea s’intende) de’ Fiorentini, in parte dotti di professione, e tutti colti, in un numero sufficiente per condurre la cosa a termine con sollecitudine e insieme con sicurezza. E usando della padronanza che si ha sui personaggi ideali, li fo sedere intorno a un tavolone, e dico loro: «Fate un’opera bona, mettete insieme un vocabolario fiorentino.»

Ne hanno il mezzo? E quale?

Eh, per amor del cielo! il mezzo più pronto, più naturale, più esperimentato, quello di cui si servono quando parlano. E che sia il vero, osserviamo cosa faccia l’uomo quando parla. Sarà l’affare d’un momento, e l’applicazione verrà subito: che non ci avessero a sfuggire i lettori, per paura della metafisica. L’uomo quando parla fa un’operazione meravigliosa, e che non par tale, appunto perchè è meravigliosamente connaturata, e con la sua mente, e con l’organo corporeo relativo al fine. Forma, con una rapidità inconcepibile, ma insieme innegabile, più giudizi, spesso complicati e finissimi, sopra ciascheduna delle parole che manda fuori seguitamente, e come una cosa sola: giudizi sul significato speciale di ciascheduna, sulle sue relazioni con quelle che la precedono e con quelle che devono venir dietro, e sopra altre circostanze, secondo il caso. E quale è il criterio che lo guida in questa operazione? dico il criterio, perchè se avesse a fare la scelta tra diversi, l’operazione stessa sarebbe impossibile. Questo unico criterio è l’esperienza.

Dall’aver tante volte sentite quelle parole usate a uno stesso intento, nelle stesse attitudini, con le stesse corrispondenze, induce, affatto ragionevolmente, che serviranno a far passare il suo pensiero nella mente del suo interlocutore; giacchè suppongo qui il caso più frequente, cioè il discorso tra persone che parlino lo stesso idioma. È insomma ciò che, in fatto di lingua, si chiama, per antonomasia, l’Uso; quell’Uso che è detto l’arbitro, il maestro, il padrone, fino il tiranno delle lingue, e anche da quelli che, all’atto pratico, fondano le loro teorie, e i loro giudizi sopra non so quant’altre cose diverse, secondo l’opportunità, senza rispetto all’arbitro, al maestro, al padrone, e senza paura del tiranno.

Ora, l’operazione che ho descritta (grettamente, ma, spero non lungamente) è la medesima che hanno a fare i miei convocati in Firenze, e col medesimo criterio, quello dell’Uso; con la differenza che, nel fatto di chi parla, il criterio è applicato a delle circostanze speciali, e la sua applicabilità ai casi simili c’è solamente sottintesa, ma sottintesa per necessità logica; e dai compositori d’un vocabolario, una tale applicabilità è avvertitamente contemplata, e indicata con apposite definizioni.

Questi hanno poi due gran vantaggi, e su chi parla, e su di loro medesimi considerati come parlanti: quello di poter fare la cosa con comodo e fermarsi, dove par loro che ne nasca il bisogno per applicare più ponderatamente il criterio; e quello di poterne consultare tra di loro: due cose che diminuiscono di molto la possibilità d’ingannarsi. Questa possibilità esiste però sempre: chi ne potrebbe dubitare? Ma c’è anche la possibilità del rimedio, cioè quella di ricorrere a quel tale Uso sem[p. 617 modifica]pre vivo, il quale come è stato il loro criterio, è anche il loro giudice naturale.

Concludo questa prima parte col dir loro: Risolvetevi dunque a darci il vostro vocabolario, poichè il mezzo ce l’avete, e non vi manca se non la santa e benedetta voglia.

Ma ora ho a fare i conti (e la cosa non potrà andar così liscia) con degli altri, i quali dicono che il fiorentino non è una materia sufficiente per il vocabolario che si desidera, e ne propongono un’altra. Dicono, a un dipresso, che il circoscriverla in un campo così ristretto, è impoverire la lingua, e privarla d’una quantità di locuzioni toscane quante le fiorentine, e belle, ingegnose, calzanti, energiche, quali insomma s’è ben contenti di trovarne in una lingua. E propongono per conseguenza, che dal toscano, nell’intero e complessivo significato della parola, s’abbia a prender la materia.

Dei titoli addotti qui in parte e di quanti altri se ne possano addurre di simil genere, non s’ha qui a discutere, come s’è detto; ma solamente a vedere se la materia somministri anche qui il mezzo di formar logicamente un vocabolario.

A questo intento, con l’autorità che mi sono conferita da me (il metodo non è di mia invenzione), scelgo tra i toscani non fiorentini un numero sufficiente d’uomini, e dotti e colti, come nell’altro caso. E qui non s’incontra la più piccola difficoltà. Ma all’atto pratico, quando li veggo seduti, alla volta loro, intorno al tavolone per compilare il vocabolario, qual differenza tra loro e i primi! Quelli avevano a prendere i loro materiali da una massa riunita, e a comporre un lavoro che aveva un tipo fuori di sè; questi devono andar razzolando materiali da masse diverse; e il complesso che uscirà dal loro lavoro, non avrà, come tale, altra esistenza che nel volume dove l’avranno riposto. Quelli erano fiorentini che conoscevano tutti il fiorentino; e di questi toscani, quanti sono quelli che conoscano il toscano, dico quel toscano al quale chiedono che si dia un posto nel vocabolario? Neppur uno.

Perchè, la questione non cade su quella, dove maggiore, dove minore, ma sempre gran parte di locuzioni che tutti gl’idiomi toscani hanno comune, e col fiorentino e tra di loro; quella, dico, per cui tutti gl’Italiani si sono accordati nel dare a quegl’idiomi il nome collettivo di lingua toscana, trascurando le differenze, come una parte di gran lunga minore.

Certo, prendendo il vocabolo in questo senso, sarebbe un’assurdità, più ancora che un’impertinenza, il dire che i Toscani non conoscano il toscano. Ma è per l’appunto sulle differenze che la questione è posta. E sono forse io, che, all’usanza de’ cavillatori e de’ sofisti, m’attacchi all’eccezione, per far perder di vista il principale?. No davvero. Sono loro che pongono la questione su queste differenze, e su queste sole; giacchè sulla parte dei loro idiomi identica col fiorentino, e che si trova già nel vocabolario che ho fatto far da questi, cosa avrebbero a reclamare? Di quell’altro toscano ho voluto dire, e credo d’aver potuto dire, che non lo conoscono. Qual ragione c’è infatti per supporre che gli abitanti di ciascheduna città di Toscana conoscano le locuzioni speciali dell’altre città? Ora, essendo di prima e assoluta necessità il conoscere la materia sulla quale s’ha a lavorare, dovranno i miei secondi convocati ricorrere al solo espediente possibile (chi n’avesse un altro, faccia il piacere d’indicarlo), quello di metter fuori ognuno le locuzioni speciali del proprio idioma, e averne così una raccolta in comune.

Quando poi l’hanno, come se ne servono, o, se mi si passa questa espressione famigliare, come la cucinano? [p. 618 modifica]

Prendiamo un esempio. Quello che a Firenze si dice Grappolo d’uva, si dice a Pistoja Ciocca d’uva, a Siena Zocca d’uva, a Pisa e in altre città Pigna d’uva. Cosa si fa in un caso simile?

Qui entra un ficcanaso e dice: «Questione oziosa, dacchè l’autorità degli scrittori ha consacrata la voce Grappolo

Veggo, signor mio, gli rispondo con una gentilezza pari alla sua, che lei appartiene alla classe rispettabilissima per il numero, di quelli che, quando trovano difficoltà a sciogliere una questione secondo il loro desiderio, la mutano. Qui si tratta di società parlanti, e non di scrittori. Se crede che l’autorità degli scrittori sia un giudice supremo in fatto di lingua (o piuttosto il giudice supremo, giacchè il volerne più d’uno in una stessa materia, come è assurdo in logica, così riesce in pratica a un laberinto), dica le sue ragioni, ma altrove. Servitor suo, e a non rivederla.

Così, per riprendere il discorso interrotto, quelle due strisce di panno o d’altro, con le quali si sorreggono i bambini, per avvezzarli a staccarsi, a Firenze si chiamano Falde, a Siena Dande, a Pistoia Lacci, a Arezzo Caide, a Lucca Cigne, e non so se altrimenti in altre città toscane. Senza addurre altri esempi, domando di novo cosa si fa in simili casi. Metter tutte quelle varietà nel vocabolario? È una proposta assurda. Fare una scelta tra di esse? Con quale criterio, o piuttosto con quali criteri? giacchè un unico e generale criterio, il criterio del fatto, quel Possideo quia possideo, che è il titolo d’un Uso reale, non è applicabile a un Uso che si vuol creare. Ogni locuzione, per essere ammessa in un vocabolario, deve necessariamente, come s’è detto, avere un suo perchè, come l’ha per essere adoprata nel discorrere. Nel caso di cui si tratta, questi perchè, giacché l’unico manca, avrebbero a essere i pregi di diverso genere delle locuzioni toscane. Ora c’è egli un paragone, e dirò così, un saggiatore comune, a cui riferire questi pregi diversi, per decidere quale di essi deva, in un caso o in un altro, avere la preferenza? E non c’essendo questo, che non ci può essere, come potranno que’ signori prefiggersi una norma qualunque, per fare la scelta necessaria?

Ma supponendo pure (e non è poco) che, senza un tal mezzo, siano riusciti a accordarsi in ciaschedun caso, dove per un motivo, dove per un altro, e che il vocabolario sia fatto; domando se s’ha a intendere che deva rimanere immutabile in perpetuo, o che, con l’andar del tempo, possa nascere il bisogno di farci de’ mutamenti, cioè di levarne delle locuzioni e d’aggiungerne dell’altre. La prima supposizione è talmente opposta al concetto d’una lingua e, per conseguenza, d’un vocabolario, che non occorre parlarne. Ora, nel sistema su di cui avrebbe a essere formato il vocabolario supposto ora, come e dove si potrà egli trovare, e l’indizio d’un tal bisogno, e il modo di supplirci? Per un vocabolario formato su di un Uso reale, quest’Uso che fu il criterio e la guida della prima operazione, continua a esserlo delle susseguenti. Col fatto di smettere tali e tali locuzioni, e d’adottarne tali e tali altre, l’Uso dà insieme e l’indizio e il modo di levare e di aggiungere, quando il numero di queste mutazioni (sempre lente a formarsi in una maniera che prometta qualche stabilità) mostri la convenienza di riformare in parte il vocabolario. Ma in quell’altro, congegnato artifizialmente con de’ brani di diversi usi, undique collatis membris, con una scelta arbitraria, perchè diretta da ragioni più o meno probabili, ma nessuna necessaria e perentoria, come e dove, ripeto, trovare, nè indizio, nè modo di mutazioni? Il criterio, o piuttosto i critéri della scelta erano i pregi delle diverse locuzioni; e qual motivo di mutazione si può trovare in questi? Abbiamo potuto supporre bell’e fatto quel vocabolario, Perchè alla fin fine un accordo arbitrario tra varie persone è sempre possibile. Ma in quest’altra parte essenzialissima, non [p. 619 modifica]si vede nemmeno quale appicco possa avere l’arbitrio: e ci troviamo tra un’immutabilità assurda, e una mutabilità inapplicabile.

Da tutto ciò credo di poter concludere che i diversi idiomi di Toscana non possono somministrare un mezzo logico e definitivo di formare un vocabolario; e che, per conseguenza, rimangono escluse e prescritte tutte le ragioni che siano state, o che possano essere addotte per dimostrare che ad essi ne competa il privilegio.

Una tal conclusione, quantunque relativa a una questione agitata in una sola parte d’Italia, e che non accenna in nessun modo di volersi estendere all’altre parti, potrà, se è giusta, avere una forza più generale di quello che pare a prima vista. Tutto ciò che, in qualunque particolare, si riferisce all’unità della lingua, viene a toccare il punto essenziale della questione che tanto importa all’Italia di veder risoluta. E in questo caso, lo fa con un vantaggio particolare. Se i titoli che i diversi idiomi di Toscana possono allegare per aver una parte loro propria nel vocabolario, titoli incomparabilmente più speciosi di qualunque altro, perdono ogni forza a fronte, non dico dell’utilità, ma della necessità primaria, unica, incondizionata dell’unità in fatto di lingua, quanto più non saranno da metter da parte tutte l’altre proposte che ne vanno ben più lontano, quale per una strada, quale per un’altra! Mi pare quindi che non sia da trascurarsi nessuna occasione, anche secondaria e meno diretta, di far prevalere il concetto di questa unità, che è la vita delle lingue, e, per conseguenza, anche la condizione per poterle diffondere; giacchè per camminare bisogna essere.

Su di questo è da desiderarsi che insistano quelli che vogliono per la comune patria questo gran benefizio, e ai quali l’età e il vigor della mente consentono di potere adoprarsi a procurarglielo. È da desiderarsi, dico, che c’insistano senza stancarsi nè scoraggirsi per la lentezza del successo, confidando in quell’insegnamento dell’esperienza, che anche la verità, a forza d’essere ripetuta, può riuscire a persuadere.

Qui avrei finito, se dipendesse da me il far fare ai personaggi interessati nella questione la parte che conviene a me, e poi mandarli a spasso. Ma non è, nè deve essere così; e ecco che li sento dirmi: Voi avete opposta a vostro agio una unità fiorentina alla moltiplicità toscana; ma codesta unità esiste poi in fatto? Non corre forse alcuna diversità in Firenze, tra il parlare delle diverse condizioni, tra quello delle diverse parti della città? Avete mai sentito dire: la lingua di Mercato vecchio, la lingua di Camaldoli? E non v’è mai occorso di domandare separatamente a due fiorentini della stessa condizione, il nome fiorentino d’un oggetto qualunque, sia materiale, sia morale, e di ricevere due risposte diverse? Si potrà quindi domandare anche a voi: Come si fa in simili casi per compilare il vocabolario?

Rispondo che, in tutte le cose umane, ci sono de’ difetti inevitabili, inerenti alle cose stesse, e non tali però da distruggerle; e che non c’è nessun paragone da fare tra i difetti di questo genere, e degli altri che ci si volessero aggiungere. Quelli sono da sopportarsi; questi da tener lontani. Par unità di lingua non si può certamente intendere un’unità intera. In altri termini, Uso, in questa materia, non vuol dire, nè può voler dire una totalità di locuzioni posseduta ugualmente da una totalità di persone. Si deve naturalmente intendere l’unità fin dove è possibile, cioè quella in cui le varietà siano nel minor numero possibile, e in cui prevalga una cagione che mantenga necessariamente l’identità in un numero di casi incomparabilmente maggiore della varietà. E questo è per l’appunto l’Uso, dico il vero Uso, quello che vive in una società riunita, dove il bisogno continuo, incessante, d’intendersi sopra qualunque [p. 620 modifica]materia conserva necessariamente quella maggiore identità. Si ha quindi ragione di chiamarla unità a confronto di una miscellanea artifiziale, d’una rappezzatura arbitraria di brani staccati da diversi Usi.

Alla domanda di cosa s’abbia a fare di tali varietà nel compilare il vocabolario, è facile il rispondere. Registrarle, perchè non sono fuori affatto dell’Uso e ci stanno mescolate con esso: ma aggiungere l’indicazione (approssimativa, s’intende) dei gradi e dei modi del loro non esserci interamente. E in questo, come in molti altri particolari, abbiamo un utile esempio nel Vocabolario dell’Accademia Francese, dove a quelle varietà si vedono applicate diverse formule, come: «Il vieillit — Il est peu usitè — Il se dit quelquefois pour.... — On ne l’emploie que dans cette phrase.... — On dit aussi — Il se dit encore vulgairement — Il est très familier — Il est populaire, — » e simili. Così, quando per materia dell’osservazione si prende il fatto, anche i dubbi diventano parte della cognizione. C’è poi l’altro gran vantaggio, che quelle varietà sono naturalmente circoscritte e limitate, e c’è quindi la possibilità di raccoglierle; mentre nel fare una scelta tra delle locuzioni prese da diversi idiomi, si troveranno bensì cento motivi per principiare, ma non una vera e perentoria ragione di finire.

Riguardo poi alla lingua di Mercato Vecchio e alla lingua di Camaldoli, dico che coi traslati bisogna aprir bene gli occhi, perchè sono traditori. Siccome adoprano un vocabolo che ha un suo significato anteriore e proprio, affine di fare intendere un’altra cosa per mezzo d’una somiglianza qualunque; così c’è sempre pericolo che quel vocabolo, col suono stesso, richiami la mente al concetto proprio che è il più consueto, e che la mente poi ragioni su di quello, come se fosse lui il soggetto del discorso. È un traslato simile a quello che fa dire: la lingua della musica, la lingua della botanica e simili; se non che in questi casi non nasce l’equivoco, perchè le materie di queste sono spiccatamente distinte dalle altre. Le frasi: Lingua di Mercato Vecchio, e Lingua di Camaldoli non vogliono dir altro che una somma, e una piccola somma, di differenze speciali dal parlar comune di Firenze; e tanto sono lontane queste differenze dal costituire una lingua, che, se i mercatini e gli abitanti di Camaldoli non avessero altro che quelle per dire ciò che gli occorre di dire, non avrebbero il mezzo di discorrere, nè con gli altri fiorentini, nè tra di loro. Ciò che li fa essere uomini parlanti, come dice Omero, è il fiorentino di Firenze, è quel sacrosanto Uso, nel quale incastrano poi quelle loro varietà. E se vogliamo vedere che conto s’abbia a fare di quel linguaggio misto, il miglior mezzo d’evitare ogni parzialità, è di rimetterne la decisione a quegli uomini stessi. Si domandi dunque a loro, se credono che il loro linguaggio sia il bono, quello che s’abbia a insegnar nelle scole. Ho paura che rispondano con delle insolenze, perchè credono che si voglia canzonarli. E con ciò riconoscono implicitamente che c’è in Firenze una bona lingua e che questa bona lingua non è la loro. Quando i Francesi dicono Le langage des halles, intendono forse dire che in Parigi ci siano due lingue? Eh via! non badiamo alle parole, o, per dir meglio, badiamoci bene, perchè non ci abbiano a menar fuori di strada.

Non posso finire senza levar di mezzo una falsa interpretazione; la quale, senza aver nessuna forza contro le ragioni addotte, può disturbarne l’effetto. «Dunque, secondo questa teoria, mi sento dire, tante locuzioni toscane esprimenti concetti ai quali l’Uso fiorentino non provvede, dovranno, per questo solo, quantunque utili, quantunque analoghe ad esso per la forma, a segno di non esserne distinguibili per chi non conosca il fatto materiale, dovranno, per ciò solo che non fanno parte di quell’Uso così rigorosamente preso, esser bandite, condannate [p. 621 modifica]all’obblivione, buttate via, come spazzature? . Chi . ha detto questo? rispondo. — Ma se non volete dir questo, dov’è il posto che riservate a quelle locuzioni? Cosa rimane da farne, secondo voi? — Adoprarle a tempo e luogo.

E se pare che qui dia in fuori una contradizione, io non ci ho colpa. La colpa sarà di chi rimanga fisso a non vedere altra alternativa per le parole, che, o vocabolario o morte; a non voler osservare la differenza che corre tra il modo di fare un vocabolario, e il modo d’adoprare una lingua. I due modi sono diversi, come sono diversi i due intenti. Quello del vocabolario è di rappresentare, per quanto è possibile, una lingua, cioè un complesso di fatti coesistenti, limitati, numerabili; e il non uscire da questa cerchia è l’unico modo (mi sfogherò a ripeterlo anche una volta), e di principiare e di finire con ragione. L’intento di chi adopra una lingua è d’esprimere tutti i concetti che, in un argomento qualunque, gli paiano venire opportuni. Il primo e più diretto mezzo a ciò è senza dubbio l’attenersi strettamente all’Uso. Ma dove questo manca, e quando, per conseguenza, è cosa ragionevole il cercare un mezzo altrove, chi vorrà negare, nel caso nostro, che tra tutti i luoghi da dove si possa prenderlo, lingue morte, lingue straniere, vocaboli disusati della lingua medesima, vocaboli di qualunque altro idioma della medesima nazione, e anche di Mercato Vecchio e di Camaldoli, chi vorrà, dico, negare che, a capo di lista, in un posto a parte, siano da mettere gl’idiomi toscani, così affini all’Uso fiorentino, anche dove ne differiscono? Qui acquistano un vero valore que’ titoli, che ho detto, e non mi ridico, doversi, in virtù del metodo di prescrizione, escludere dalla formazione del vocabolario.

Il Voltaire, mandando all’Accademia Francese le sue osservazioni sulle tragedie di P. Corneille, notava che il vocabolo Invaincu, adoprato da questo, non aveva fatta fortuna. L’Accademia fece scrivere in margine: Perchè non gliela fate fare voi? È uno di quei detti altamente sensati che le cose stesse suggeriscono a chi le guarda dal lato giusto. L’Accademia, la quale, come disse con uguale sensatezza un membro di quel corpo, «non è altro che il segretario dell’Uso», non aveva, in quel caso, nulla a fare: uno scrittore poteva fare. Perchè, quanto è falso che gli scrittori possano costituire una lingua, altrettanto è vero che essi, come quelli che parlano, per dir così, a più persone, e alcuni a migliaia di persone alla volta, possono, più che gli altri non facciano col solo mezzo del discorso, e diffondere l’Uso dove non è conosciuto, e anche proporre all’Uso medesimo delle nove locuzioni, le quali, accettate da quello, entrino così nel corpo della lingua, e acquistino il titolo di esser registrate, a suo tempo, nel vocabolario.

Torno a voi, Bonghi carissimo, per dirvi, non senza vergogna, che, quando vi chiesi un posto, non prevedevo che dovesse essere simile a quello che si prende il cuculo nel nido altrui, per deporci il suo ovo. E m’accorgo un po’ tardi di qualcosa di peggio, cioè di quello che c’è di strano nel mettere il vostro nome sulla sopraccarta di lettere dirette a degl’incogniti, e far trasmettere le mie idee da voi così ricco delle vostre. Non posso che dire, come i ragazzi colti in fallo: Non lo farò più. E voi perdonate anche questa volta, e vogliate sempre bene al vostro

Alessandro Manzoni.

Milano 1868.