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intorno al vocabolario 621

blivione, buttate via, come spazzature? . Chi . ha detto questo? rispondo. — Ma se non volete dir questo, dov’è il posto che riservate a quelle locuzioni? Cosa rimane da farne, secondo voi? — Adoprarle a tempo e luogo.

E se pare che qui dia in fuori una contradizione, io non ci ho colpa. La colpa sarà di chi rimanga fisso a non vedere altra alternativa per le parole, che, o vocabolario o morte; a non voler osservare la differenza che corre tra il modo di fare un vocabolario, e il modo d’adoprare una lingua. I due modi sono diversi, come sono diversi i due intenti. Quello del vocabolario è di rappresentare, per quanto è possibile, una lingua, cioè un complesso di fatti coesistenti, limitati, numerabili; e il non uscire da questa cerchia è l’unico modo (mi sfogherò a ripeterlo anche una volta), e di principiare e di finire con ragione. L’intento di chi adopra una lingua è d’esprimere tutti i concetti che, in un argomento qualunque, gli paiano venire opportuni. Il primo e più diretto mezzo a ciò è senza dubbio l’attenersi strettamente all’Uso. Ma dove questo manca, e quando, per conseguenza, è cosa ragionevole il cercare un mezzo altrove, chi vorrà negare, nel caso nostro, che tra tutti i luoghi da dove si possa prenderlo, lingue morte, lingue straniere, vocaboli disusati della lingua medesima, vocaboli di qualunque altro idioma della medesima nazione, e anche di Mercato Vecchio e di Camaldoli, chi vorrà, dico, negare che, a capo di lista, in un posto a parte, siano da mettere gl’idiomi toscani, così affini all’Uso fiorentino, anche dove ne differiscono? Qui acquistano un vero valore que’ titoli, che ho detto, e non mi ridico, doversi, in virtù del metodo di prescrizione, escludere dalla formazione del vocabolario.

Il Voltaire, mandando all’Accademia Francese le sue osservazioni sulle tragedie di P. Corneille, notava che il vocabolo Invaincu, adoprato da questo, non aveva fatta fortuna. L’Accademia fece scrivere in margine: Perchè non gliela fate fare voi? È uno di quei detti altamente sensati che le cose stesse suggeriscono a chi le guarda dal lato giusto. L’Accademia, la quale, come disse con uguale sensatezza un membro di quel corpo, «non è altro che il segretario dell’Uso», non aveva, in quel caso, nulla a fare: uno scrittore poteva fare. Perchè, quanto è falso che gli scrittori possano costituire una lingua, altrettanto è vero che essi, come quelli che parlano, per dir così, a più persone, e alcuni a migliaia di persone alla volta, possono, più che gli altri non facciano col solo mezzo del discorso, e diffondere l’Uso dove non è conosciuto, e anche proporre all’Uso medesimo delle nove locuzioni, le quali, accettate da quello, entrino così nel corpo della lingua, e acquistino il titolo di esser registrate, a suo tempo, nel vocabolario.

Torno a voi, Bonghi carissimo, per dirvi, non senza vergogna, che, quando vi chiesi un posto, non prevedevo che dovesse essere simile a quello che si prende il cuculo nel nido altrui, per deporci il suo ovo. E m’accorgo un po’ tardi di qualcosa di peggio, cioè di quello che c’è di strano nel mettere il vostro nome sulla sopraccarta di lettere dirette a degl’incogniti, e far trasmettere le mie idee da voi così ricco delle vostre. Non posso che dire, come i ragazzi colti in fallo: Non lo farò più. E voi perdonate anche questa volta, e vogliate sempre bene al vostro

Alessandro Manzoni.

Milano 1868.